Editoriali e Interviste, Rassegna stampa

Un capitalismo dal basso la ricetta per ripartire

Economisti a confronto sulla strada per ridurre i gap e puntare ad una crescita sostenibile. Gardini (Confooperative): puntare all’economia del “noi”.

di Aldo Bonomi  Festival dell’Economia di Trento
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«Ripartiamo dai territori», spiega Aldo Bonomi. «Sostituiamo l’economia dell’io con quella del “noi”», afferma Maurizio Gardini. «Ricostruiamo un capitale etico nelle comunità», aggiunge Luigino Bruni. Dibattendo di nuovi modelli di capitalismo, uno dei convegni di apertura del festival dell’Economia di Trento (sala gremita e più persone in piedi nel dipartimento di Sociologia dell’ateneo di Trento) le ricette proposte sono in larga misura convergenti e l’indicazione è chiara: la direzione attuale è difficilmente sostenibile, occorre un aggiustamento robusto verso “il basso” nelle priorità, qualcosa che vada oltre un mero fine tuning.

Il punto di partenza condiviso è l’allargamento del gap tra individui, fratture economiche nella distribuzione di reddito e ricchezza che si allargano ad altri aspetti, dalla formazione alla qualità abitativa, rendendo necessario un ripensamento del modello di sviluppo che guardi alle comunità, ai territorio, alle necessità della coesione sociale.
Il trend dell’indice sintetico di disuguaglianza da questo punto di vista offre un riscontro inequivoco sulla necessità di un riequilibrio, con il 10% delle persone più agiate a detenere oltre il 50% della ricchezza.
«Il nostro è un capitalismo diverso sia da quello anglosassone che da quello renano – spiega il sociologo Aldo Bonomi – perché è costruito sul territorio. È fatto di alcuni grandi gruppi, alcune medie aziende ma poi soprattutto di un capitalismo molecolare e diffuso, incarnato ad esempio nei distretti». Territori che subiscono in modo evidente l’impatto dei flussi della globalizzazione, che si manifestano in più aspetti: nella finanza, nelle crisi ecologiche, nella pandemia, nella stessa guerra.
«I territori ormai si sono trasformati in piattaforme di competizione globale – aggiunge Bonomi – ad esempio produttive, come capita ai distretti. Un sistema che però regge solo se c’è coesione sociale, se manca welfare di territorio, così come welfare di impresa, le disuguaglianze aumentano: senza una piattaforma socio-ecologica condivisa il modello non sta più in piedi».

Sostenibilità a rischio anche per l’economista Luigino Bruni, che osserva anzitutto gli effetti collaterali del cambio di paradigma rispetto al passato: prima a contare erano gli stock, oro e terra ad esempio, mentre oggi a valere sono i flussi, dando un primato al reddito rispetto al capitale. Sfruttamento degli stock visibile in termini ambientali ma non solo, guardando anche ai valori in gioco.

«Il capitalismo – spiega – è stato bravo a custodire e valorizzare alcuni valori come l’efficienza, la produttività, la valorizzazione del talento. Più in difficoltà invece nel custodire altre virtù. Quelle che portano a realizzare un muro dritto, come osservava primo Levi nel racconto del lager, non tanto perché a chiederlo sono i tuoi aguzzini ma perché un lavoro ben fatto è un valore in sé». Tra i problemi – aggiunge Bruni – vi è il fatto di pensare all’impresa come ad un luogo omnicomprensivo, in grado di risolvere ogni complessità: prima con il management scientifico, se questo non basta con i consulenti.

«Invece – chiarisce – l’impresa non può fare tutto. Ed ecco perché dobbiamo “tornare fuori”, ricostruire questo capitale etico, guardando alla comunità come luogo di realizzazione. Perché se l’impresa diventa “tutto” il lavoratore esplode. E la prossima pandemia arriverà sotto forma di depressione».

Allargarsi alla comunità è anche la ricetta di Maurizio Gardini, presidente di Concooperative (17mila imprese, 3,1 milioni di soci), convinto della necessità di trovare un nuovo modello di economia, che vada oltre la misurazione del mero Pil. Svolta necessaria guardando all’aumento delle disuguaglianze, alle crescenti fratture sociali, all’esercito di persone che rimane indietro.

«Povertà economica che si allarga a quella abitativa, formativa e che rischia di allargarsi. L’antidoto è l’economia sociale, quella che in effetti è nel Dna di Confcooperative. Un’economia del “noi” da contrapporre a quella dell’”io”, una modalità partecipativa che nasca dal basso e che risponda ai bisogni. Sogno un paese in cui accanto all’economia capitalistica ci sia spazio per un’economia diffusa. In cui ad esempio, parlando di transizione energetica, il modello non sia solo quello imposto dai grandi gruppi ma anche quello delle comunità energetiche».

Spinta ad una nuova etica visibile anche nella finanza – spiega Rita D’Ecclesia, docente della Sapienza – con un modello che inizia a rendersi palese anche nelle banche. «Dove i criteri di erogazione dei prestiti – chiarisce – iniziano a tenere conto anche dei percorsi di sostenibilità avviati dalle imprese. Strada lunga, perché c’è ancora molto da fare, ma l’aspetto positivo è vedere la grande attenzione posta in questa direzione».

Tutto vero, tutto condivisibile, commenta Marcello Signorelli dell’Università di Perugia. Anche se poi, aggiunge, occorre fare i conti con il mondo che si muove attorno a noi, con la realtà. Che vede la Cina ormai prima potenza mondiale per Pil e l’Europa inseguire non più solo sotto il profilo del peso economico ma anche in altri aspetti critici: della natalità agli stessi brevetti, indice di spinta innovativa di un paese. Arretramento, quello del mondo occidentale, che si accompagna ad un riequilibrio non virtuoso nei sistemi di governo.

«La quota di “mondo” governata da autocrazie – spiega – sta crescendo in modo evidente, valeva il 15% del Pil nel 1990 e ora è al 40%».

Declino economico, quello europeo, che potrebbe presto trasformarsi in declino politico ma anche tracimare altrove, mettendo a rischio la stessa qualità della vita, così come le relazioni nelle nostre comunità. «Ecco perché occorre puntellare con forza la nostra competitività – aggiunge – senza perdere la nostra spinta innovativa, rilanciando la ricerca e decidendo a livello di politica industriale in quali settori investire. In sintesi, la realtà è globale ed è con questa che dobbiamo fare i conti. Il nuovo modello di sviluppo che pensiamo di impostare non potrà prescindere da questo».

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