Editoriali e Interviste, News

Venti di crisi su un modello di coesione

di ALDO BONOMI Microcosmi – Il Sole 24Ore

In questo 2020 ormai alle spalle, si è molto guardato agli impatti della pandemia sulle aree urbane o alle potenzialità di rigenerazione delle piccole comunità-polvere poco toccate dal virus. Prendo spunto da una ricerca – L’Italia Policentrica”, dell’associazione Mecenate ’90 con la cura di Ledo Prato – per ragionare di quel tessuto di città intermedie che da un trentennio, a fianco delle aree metropolitane, fa da intelaiatura urbano-industriale per la capacità del Paese di “tenere” la globalizzazione.

È un’Italia che nel rapporto di ricerca è identificata in 161 centri urbani tra 24mila e 250mila abitanti, con quasi un terzo della popolazione nazionale. Non è certo un’Italia minore, anche se spesso viene accostata più alle inquietudini che all’industriosità dei suoi ceti produttivi. Un’Italia delle cento città il cui tessuto urbano ha due dotazioni di capitale territoriale fondamentali per il Paese: corpi intermedi orientati alla qualità della vita sociale e culturale; forte connessione tra economie urbane di servizi e un capitalismo intermedio manifatturiero ancora territorializzato e innestato in filiere internazionali. Due caratteristiche che l’ultimo decennio ha sottoposto a fortissime pressioni al cambiamento, e che mostrano quanto nel modello italiano, la città intermedia sia una città-piattaforma, città-territorio, sia sul piano dei processi economici e sociali reali, che su quello delle politiche pubbliche e della governance.

Le città intermedie nell’ultimo decennio, hanno iniziato a svolgere il ruolo di città-piattaforma, cooperando e facendosi carico dei centri minori di prossimità, svolgendo un ruolo di leadership di area vasta, anche se in modo molto frammentato. Alcune hanno avviato esperienze di reti tra città intermedie, attive sul piano funzionale e progettuale, spesso su spinta europea. Configurando un assetto in cui non c’è smart city senza smart land, caratterizzato da un policentrismo funzionale e potenzialmente complementare, fatto di servizi ed economie fondamentali, di integrazione di utility e di progettazione urbanistica e territoriale. Una matrice istituzionale leggera, che prova a ripensare dal territorio il governo dell’urbanizzazione diffusa, e che rappresenta un capitale da mettere al centro delle politiche nazionali di coesione e di recovery, visto che la tenuta del connubio città intermedie-capitalismo intermedio, è fondamentale per la ricostruzione nel post-Covid.

Il punto è però che la doppia crisi 2008-2020, ha inferto colpi duri alla capacità di questa Italia di combinare sviluppo economico e coesione. L’Italia intermedia delle piattaforme città-territorio, è oggi un tipo di società in cui elementi di frattura e di resilienza convivono. La forza delle città intermedie è da sempre nella coesione, intesa non solo come capacità di attutire le disuguaglianze sociali attraverso un welfare più capace di coprire bisogni crescenti mediante servizi collettivi funzionanti e un costo della vita più moderato, ma anche come forza di un tessuto sociale e culturale cresciuto e capace di co-progettare con la controparte pubblica processi di rigenerazione urbana. Una capacità di intelligenza collettiva che a cavallo del 2020 ha visto emergere sperimentazioni di un’urbanistica post-pandemica, da Nord a Sud, con protagoniste coalizioni di terzo settore, fondazioni, sindaci e imprese, a formare una sorta di comunità di cura urbana allargata, che rappresenta anche un potenziale di nuovi gruppi dirigenti.

Occorre però capire quanto questa capacità di sperimentazione/progettazione sia in grado di costruire soglie abbastanza robuste per tenere sotto controllo faglie sociali e disuguaglianze in costante crescita e drammatizzate dalla pandemia. Perché già nel decennio precedente al Covid, fenomeni di fragilità sociale e demografica di tipo metropolitano stavano intaccando la capacità delle città di soddisfare le aspettative di coesione e qualità dei suoi abitanti. Forti migrazioni e invecchiamento, i nuovi bisogni dovuti allo smart working, l’impatto sui sistemi dei servizi collettivi, processi di gentrification, la crisi di istituzioni territoriali come le banche locali, l’impatto del commercio digitale sul tessuto di piccolo commercio e artigianato, sono tutti elementi che trasformano anche le città mediane.

C’è poi un terzo aspetto, quanto cioè le città intermedie siano oggi in grado di attrezzare il territorio come hub di servizi e innovazione al servizio delle filiere turistiche, agroalimentari e della green economy. Riposizionandosi come poli terziari che intrecciano servizi alle imprese e per la qualità della vita. Molto dipenderà da quanto servizi e università locali saranno in grado di sviluppare nuove idee-guida forti, in grado di supportare una transizione alla sostenibilità e al salto tecnologico dell’economia del dato da parte del tessuto d’impresa diffusa. Governance urbana, disuguaglianze e innovazione sono le aree su cui credo valga la pena costruire una politica che accompagni lo sforzo e la tenuta delle città intermedie nel prossimo futuro.

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