Il malessere che rende attuali i corpi sociali
Solo rappresentando e dialogando sarà possibile far diventare ambiente e digitale le parole chiave del “progresso” che tutti auspichiamo
di ALDO BONOMI Microcosmi Il Sole 24Ore
Giustamente discutiamo e guardiamo alla tenuta delle ossature verticali della società: alla sanità e al vaccino, alla scuola nelle fibrillazioni della ripartenza. Poi alle macchine verticali del pubblico impiego e dei grandi gruppi come Eni e alle grandi banche con i loro annunci di quanto si remotizzeranno nel lavoro e infine al tessuto manifatturiero delle medie imprese in riposizionamento nella geografia del produrre per competere. Abbiamo cultura per il dialogo e anche per negoziare nella verticalità. Ne abbiamo meno per seguire non tanto il capitalismo molecolare riconosciuto nei distretti, selezionato e incluso nelle filiere, ma il suo frammentarsi in un “volgo disperso” nel disagio molecolare della moltitudine indistinta dello sfarinamento del terziario di servizio che circonda, alimenta e sorregge la verticalità.
Era già diventato questione sociale con forme di luddismo dei territori del margine rispetto al centro sull’antico asse citta/campagna evocato dai gilet gialli. E una nebulosa-pulviscolo del disagio di ristoratori, baristi, parrucchieri, commercianti, lavoratori dello spettacolo, precari del lavorare comunicando, gestori di discoteche in difesa del “distretto del piacere” proprietari a cottimo con i camioncini della logistica, addetti alle pulizie in false e vere cooperative e i tanti sommersi nell’economia informale… Già ai tempi del lockdown era apparsa una moltitudine di invisibili non catalogabili nel codice inclusivo del welfare state. Ma oggi l’invisibilità sociale, riguarda il corpaccione della società leggibile più che con le statistiche, attraversando la nebbia che si estende dalle periferie della città, intravedendo le tante serrande abbassate delle attività cessate per arrivare al suo centro vuoto di spettacolo.
Non sarà un caso se il sindaco della Milano attraente e affluente ha posto il tema del come rigenerare la città e la sua composizione sociale in metamorfosi. Questa nebbia non avvolge solo lo sguardo del “flaneur metropolitano” è semmai, il prodotto di un vasto processo sociale generato da una spinta verticale alla modernizzazione che fa grande fatica a tradursi in civilizzazione diffusa, determinando disallineamento tra le traiettorie accelerate del progresso tecnico-scientifico e delle relative tecnostrutture funzionali che io colloco nella dimensione dei flussi, e la lenta metabolizzazione politica, sociale e antropologica radicata nei luoghi. Lo iato tra verticalità e orizzontalità non riguarda solo i grandi centri, ma caratterizza l’urbano regionale delle nostre città medie, delle città distretto sino ai piccoli comuni. La nebbia che copre le nostre piattaforme produttive segnala la crisi ecologica a cui si aggiunge la metamorfosi del capitalismo molecolare a rischio di farsi disagio molecolare. Da qui il senso del ripensare green economy e green society. Tematiche da lunghe derive della storia come ci insegna Aldo Schiavone nel suo saggio sul senso della nozione di “Progresso” nella nostra epoca.
Molto dipenderà da quanto questo sussulto, anche di ingenti risorse, si farà flusso dall’alto o processo dal basso nell’eterno ritorno del verticale verso l’orizzontale nella dialettica tutta politica tra potere e microfisica dei poteri. Solo partendo dai territori dove oggi, nella nebbia delle classi, si intravede il volgo disperso che un tempo veniva avanti “dai campi e dalle officine” sarà possibile rendere visibili gli invisibili. Questione che rimanda alla progettazione del futuro in mediazione operosa tra logiche ministeriali e/o territoriali e al ricostruire dentro la composizione sociale in mutamento, tessiture sociali e rappresentanze adeguate al salto d’epoca. Suadenti futurologi a proposito di digitale ci dicono sia per il lavoro e il commercio e anche per il tessere e ritessere legame sociale che, come nel lockdown che ha accelerato i tempi, basterà potenziare la rete. Anche qui credo sia necessaria una mediazione operosa tra “società automatica” e umanesimo digitale, tra quanto la banda sarà stretta o larga socialmente tra padroni degli algoritmi e microfisica dei poteri. Non credo che ci aspetti una semplice e comoda disintermediazione che rende tutto e tutti visibili. Anzi, per temperare il disagio molecolare mai come oggi occorre ricostruire rappresentanza per una nuova intermediazione intorno alla quale si ristrutturano i dispositivi di visibilità e invisibilità sociale. Come abbiamo visto, il salto d’epoca necessita di mediazioni operose sia per il come e cosa produrre che sul come comunicare legame sociale. Fa tornare attuale ciò che sembrava inattuale: quei corpi sociali che erano deputati a rappresentare le passioni e gli interessi delle persone.
Certo, occorre andare oltre la sola difesa corporativa di quelli dentro le mura o nelle filiere verticali e riscoprire l’orizzontalità di una moltitudine di nuovi invisibili che sono aumentati sia per quantità che varietà sociale. Solo rappresentando e dialogando sarà possibile far diventare ambiente e digitale le parole chiave del “progresso” che tutti auspichiamo. Teniamone conto nella fase di progettazione sociale che ci aspetta.