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Anche sulle Alpi è tempo di fare innovazione sociale

di Aldo Bonomi  Microcosmi Il Sole 24Ore

Finalmente ha piovuto nelle terre alte del grande nord assetato dall’inverno senza neve sulle montagne. Basterà? Faceva temere la rottura simbiotica tra “città ricca e campagna florida”, ci ha fatto alzare lo sguardo ansiosi, temendo che «la sete della montagna è la fame della pianura». Abbiamo dovuto alzare lo sguardo dal Po in secca verso le metromontagne della piattaforma alpina. La crisi ecologica cambia geografie, spazi di posizione e l’antico adagio montanaro «la sete della pianura è la fame della montagna». Raccontava lo stato di progressiva dipendenza dalle città industriali disposte a corona intorno ai pittoreschi monti del sublime romantico (con tanto di orsi e di lupi), che attiravano dalle città frotte di benestanti turisti in cerca di avventura nella verticalità e di riposo nella natura e nel paesaggio. Non a caso le Alpi sono state avanguardia del turismo, mettendo assieme prossimità ed esotico, sino a diventare il primo grande playground europeo e poi meta dell’industria della neve.
L’industrializzazione alpina avveniva nel ’900 su due registri: quella della grande ingegneria (e del grande capitale pubblico e privato) di infrastrutturazione delle grandi vie di attraversamento, delle centrali idroelettriche e della connessa industria pesante a valle, degli impianti di risalita e dei grandi resort alpini, e quella della delocalizzazione di prossimità in risalita a salmone dalle pedemontane in cerca di manodopera a basso costo, cui si sono affiancati non solo sul versante italiano, numerosi cluster distrettuali di qualità. Luxottica docet. Queste trasformazioni accelerate hanno destrutturato in profondità le identità alpine dell’autosufficienza forzata, forgiata nei secoli, favorendo l’insorgenza diffusa di quelle forme di resistenza culturale e politica poi diventate mainstream europeo nel primo ventennio del secolo. Poi la pandemia con la sua geografia del male con il pieno urbano contaminante e il vuoto alpino come salvezza come lo era dalla Tubercolosi nella Montagna incantata di Thomas Mann. Siamo all’oggi delle Alpi: piattaforma territoriale in divenire, sospesa tra il “non più” e il “non ancora”. Questione di rilievo europeo nel suo essere contaminazione e attraversamento e migrazioni tra Europa del burro ed Europa dell’olio. La macroregione alpina “larga” delle terre alte, delle valli, delle pedemontane e delle città disegna un urbano-regionale con un Pil pari a quello tedesco, intorno alla quale ci siamo interrogati nei vari contributi contenuti ne Les Alpes productives (Pug/Uga Editions 2022) curato da Roberto Sega e Manfred Perlik. Il libro pone interrogativi sul destino della piattaforma nel rapporto problematico tra città industrial-terziarie (Milano, Torino, Zurigo, Lione, Monaco, etc.), tessuto industriale diffuso (con un 20% di occupati direttamente nella manifattura, rispetto a una media europea poco superiore al 10%) e terre medie e alte del turismo, della multi-residenzialità, dell’agricoltura di qualità e della gestione delle risorse naturali. È un rimescolamento caleidoscopico di vuoti e di pieni urbani in cui si intrecciano la piattaforma turistica, quella manifatturiera, quella logistica, quella ambientale e quella sociale della tenuta demografica. Come evidenziato anche da Pierre Veltz nella sua postfazione, lo spazio di rappresentazione delle Alpi non può limitarsi all’ambire a essere un’oasi del benessere, del turismo sostenibile (dopo la crisi dell’industria della neve) con un po’ di agricoltura di qualità innestata sulla valorizzazione del paesaggio e un po’ di servizi ecosistemici. Se si punta esclusivamente su questi aspetti “endogeni” si rimarrà determinati e governati dai fattori “esogeni”, ovvero dagli aggregati urbano-regionali nodi di rete dell’economia della conoscenza globale a base urbana che continueranno a esercitare uno sguardo periferico quanto magnetico sulle montagne, sulle persone che vi abitano e sulle risorse economiche e sociali che le caratterizzano. Per governare i processi socioeconomici che le investono le Alpi sono chiamate a costruire nuove relazioni, a fare “innovazione sociale” che permettano di cogliere le opportunità del loro stare in mezzo. Che non è solo questione di attrattività da reshoring, ma è anche e soprattutto questione della metamorfosi tra green economy e green society del grande e articolato patrimonio industriale. Ed è nel rapporto tra servitizzazione, digitalizzazione, ibridazione di saperi e conoscenze, che si ridefinisce il rapporto con gli hub metropolitani in una posizione non subalterna ma di reciproca valorizzazione. Facendoci metromontagne per la circolazione/distribuzione/connessione di saperi e conoscenze legate alla conversione ecologica, alla gestione delle risorse naturali, ai modelli di fruizione turistica e di ripopolamento delle terre alte, capaci di andare oltre la dicotomia centro/periferia e avendo consapevolezza che è ai margini che si determina il destino del centro. Sono tempi centrali per la risorsa acqua perché, come ci ricorda un grande poeta, «L’acqua la insegna la sete» ed è utile rileggere La montagna incantata e il duellare tra l’illuminista Settembrini e il nichilista Naphta ricoverati in sanatorio a Davos, nel cuore delle Alpi dove oggi annualmente si ritrovano i padroni del mondo, interrogandosi sul destino del pianeta tra tecnocene e antropocene.

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