Ghetti e caporali non sono (solo) un problema del Sud
Sostengo da tempo, guardando alle dinamiche sociali sottostanti alla politica, che mai come oggi occorrerebbe mettersi in mezzo tra i penultimi e gli ultimi.
di Aldo Bonomi Microcosmi – Il Sole 24Ore
Sostengo da tempo, guardando alle dinamiche sociali sottostanti alla politica, che mai come oggi occorrerebbe mettersi in mezzo tra i penultimi e gli ultimi. Tra quelli impauriti nel sentire scricchiolare lo scalino che portava in alto e guardano in basso in quella orizzontalità del disagio fatta da “vite di scarto” rappresentate dai migranti.
Flussi in una società fuori squadra dove la scala si rompe nel disordine di una globalizzazione a pezzi dove la diaspora dal terrore dalle guerre e dalle crisi ambientali, aumenta l’esodo da diaspora della speranza. Queste contraddizioni iper moderne sono osservabili nella loro crudezza nelle piattaforme agricole dove gli ultimi si fanno schiavi e i penultimi – le penultime, trattandosi molto di lavoro femminile – arrancano “protetti” da contratti stagionali che permettono tutela nelle organizzazioni sindacali e con imprese che aderiscono ai protocolli del buon lavoro nelle piattaforme del made in Italy agroalimentare campano-pugliese.
La Flai Cgil di Taranto su iniziativa della sua segretaria Lucia La Penna si è messa in mezzo tra penultimi e ultimi. Non solo perché lo chiedono i numeri, 26mila addetti alla piattaforma agricola da tener cari visti i chiari di luna dell’Ilva dove sono in crisi i metalmezzadri della grande fabbrica, ma anche perché lì si dispiega una piattaforma delle eccellenze della terra che manutenuta e lavorata, produce bellezza. Sottostanti in quei numeri ci sono a vista 5mila migranti con in più i tanti invisibili paria del lavoro nero e del vivere nei ghetti e nei caseggiati dell’abitare la piattaforma (Borgo Mezzanone, Ginosa, Palagiano…). L’eterotopia della sindacalista è di lottare e chiedere un lavoro agricolo di qualità magari alleandosi con le imprese che stanno capendo che sempre di più il settore chiede certificazione di qualità di prodotto, ma anche di lavoro. Questo per rendere più solidi i pioli della scala per salire. Ma come fare in modo che la sicurezza dei penultimi non sia ottenuta sulla pelle degli ultimi? Questione non solo sindacale ma squisitamente politica, nel suo frammentare la solidarietà in rancore in cui ognuno cerca il suo sottostante. Rovesciando il racconto e facendo della rappresentanza una rappresentazione altra da quel modello di piattaforma agroalimentare e turistica pugliese fatta dal massimo di innovazione che nasconde sotto il tappeto il massimo di mediocrità. Per questo ha supportato, promosso e rappresentato gli invisibili con un docufilm titolato: Dust’s tales Racconti della polvere in alleanza con la creatività radicale di un regista Davide Murri e la rete di prossimità di associazioni come Salam che lavorano con gli ultimi. Realizzando un prodotto che rende visibili ghetti, caporalato, sfruttamento, ma anche risalendo il flusso delle storie di vita andando in Niger attraversando il deserto e la tomba del Mediterraneo per arrivare nella terra promessa che non è la terra del latte e del miele, ma anche qua spesso, un vivere da dannati della terra. Come in Niger ove si lotta e ci si organizza, qui protagoniste sono le donne, per consolidare un sistema agrosilvopastorale nelle comunità per non migrare verso un altrove disvelato dal docufilm. Un racconto non per concludere «aiutiamoli a casa loro» e nemmeno per dire «abbiamo bisogno di forza lavoro», ma per ragionare sui modelli di sviluppo agricolo qua e là. Avendo chiaro che sul territorio avviene un incontro tra identità e diritti deboli da reinventare in quel sogno del lavoro agricolo di qualità. Anche qui rovesciando quell’adagio che ci narra noi come forti e loro deboli, non capendo che i flussi migratori sono l’incontro di segnali deboli: loro in esodo dall’Africa in metamorfosi, noi in esodo e alla ricerca di una Europa sempre più spaccata tra le terre del burro e quelle dell’olio. Tema grande per un sindacato di territorio, ma da tenere sullo sfondo per chi vuol rappresentare chi lavora e le forme dei lavori. Per capire consiglio di leggere il libro postumo di Vitaliano Trevisan Black tulips. È quasi una chiusura del suo grande romanzo Works per lui che la scala dei lavori l’aveva salita e ridiscesa tutta: dai primi a quelli in mezzo sino ai penultimi. Con gli ultimi degli ultimi in Black tulips dove partendo dal nord est va in Nigeria da improbabile “capitalista molecolare” per fare impresa tra Vicenza e Lagos commercializzando pezzi di ricambio per automobili. Ci arriva risalendo a ritroso la via dannata che porta tante donne nigeriane nel quadrilatero del degrado della periferia vicentina. Le conosceva bene, in quel quadrilatero del disagio lui faceva il portiere di notte. Accompagnato da questa rete racconta il suo spaesamento da oyibo (uomo bianco) nella megalopoli nigeriana. Ne trae un unico monito ricorrente: «Devi guardare con i tuoi occhi». Monito per noi. Perché non è solo un problema di Mezzogiorno agricolo di ghetti e caporalato, ma un tema da comunità di destino del nostro Paese che si apre ed è porta di una Europa nel Mediterraneo.