Editoriali e Interviste, News

Una diplomazia della pace in difesa della geoeconomia

di Aldo Bonomi Microcosmi – Il Sole 24 Ore

Credevo ci fosse bastato il cigno nero della pandemia. Raccontavo microcosmi nell’esodo verso la terra promessa del Pnrr. Certo c’era il deserto da attraversare della crisi ecologica-desertificazione e della crisi energetica- gas petrolio sotto la sabbia. La sabbia che quando la prendi in mano si fa polvere evocava il frammentarsi di una composizione sociale di fronte ai cambiamenti epocali del lavoro. Da qui l’immagine delle due carovane in direzione contraria: una in fuga e l’altra alla ricerca di lavoro. Lavoro ibrido fatto di prossimità e simultaneità del digitale e lo smart working come metamorfosi. Per questo ho rivolto lo sguardo alle oasi del nostro fare impresa nel cambiamento che evocano quelle piattaforme territoriali dove l’acqua del nostro saper fare iniziava a delineare medie imprese in grado di mettersi in cammino facendo filiera di distretti in evoluzione. Anche se mi era chiaro che sia per i lavori che per il fare impresa, il fare carovana per attraversare il cambiamento rimandava a un mettersi in cammino selettivo a cui tutti eravamo chiamati anche se era

incerto e vago quanti sarebbero arrivati e quanti si sarebbero persi. Da qui il mio auspicare un ruolo dei carovanieri, delle rappresentanze sociali che fanno sindacato di impresa e dei lavori, sempre più importante quando il salto di paradigma del produrre e del lavorare scompone e disarticola la composizione sociale. Eravamo tutti indaffarati a guardare a Bruxelles e a consultare il libro dell’esodo: il Pnrr con tanto di simboli magici come il 110 per cento.

Adesso attoniti guardiamo a Kiev alla guerra in Europa. Eravamo in attesa della fine dello stato di emergenza da pandemia per ripartire e ci troviamo dentro lo stato di eccezione che le guerre portano con sé. Le carovane sono ferme. Nelle oasi delle economie e dei commerci dentro le imprese si dice che ci bastava aver visto il cigno nero della pandemia nello stagno del lockdown. Si contava molto sulla potenza dei mezzi da immettere nel ciclo del produrre e sul piegare la tecnica per intervenire nella crisi ecologica: il digitale e la sostenibilità ambientale come destino. Certo in un quadro di incertezza dei fini tant’è che si ragionava su come mettere in mezzo coesione sociale per i tanti spaesati con welfare aziendale e nuovo welfare con il terzo settore protagonista. Il nuovo cigno nero della guerra induce retrotopia (Bauman), un ricordo forte da urlare con forza della pace in Europa. Invece risuona la parola pesante di una economia di guerra. Una retroeconomia che avvolge nella tempesta di sabbia della guerra l’eterotopia delle energie dolci per la conversione ecologica con i fumi del ritorno al carbone, l’agricoltura biologica e sostenibile con il ritorno a seminare grano per il pane, mancano i fertilizzanti, le reti lunghe di una globalizzazione soft non si vedono più e si interrompono e frammentano in reti corte di approvvigionamenti e commercio. Nella prossimità ci appaiono le carovane dolenti che attraversano il deserto: sono i profughi in fuga dalla guerra che ci chiedono di metterci in mezzo tra il disumano el’umano che la guerra fa apparire. Ho fatto una piccola inchiesta nella mia rete di microcosmi: dalle vite minuscole dei camionisti alle microimprese al lavoro nel 110%, poi i distretti delle scarpe, del legno arredo e della moda salendo su verso le piattaforme dell’automotive e delle filiere agricole e della Gdo e di quelle dei turismi per poi arrivare al capitalismo delle reti soft hard della logistica, delle internet company e della finanza, e ne ho dedotto che siamo sospesi e fermi nell’esodo. Non ho fatto inchiesta con idealisti della economia. Già altre volte si erano confrontati con le guerre a pezzi ritrovate nelle strade interrotte dei mercati o nelle strategie di delocalizzazione delle imprese.
Ricordavo che ai tempi della guerra in Iraq De Rita nel presentare il rapporto Censis scriveva «Bevagna non va alla guerra», interpretando lo star sospesi di allora dei distretti come uno stare in attesa di nuovi percorsi e scenari per le economie locali. Quella guerra appariva in un deserto lontano. Avevamo girato lo sguardo anche quando si era fatta vicina alle porte di casa nella ex Jugoslavia, dove avevamo iniziato a delocalizzare. Smemorati e poco attenti al monito di Delors «all’Europa che aveva perso il senso del tragico». Siamo figli di un capitalismo di territorio agile e flessibile nel cercare tracce e percorsi di geoeconomia per il made in Italy, ma incerti e deboli nella geopolitica. Che oggi riappare con la tragedia della guerra. Siamo basiti, sospesi, impauriti con una sola speranza per riprendere il cammino: la terra promessa della pace. Speriamo che la geopolitica trovi una diplomazia di pace perché senza pace non c’è geoeconomia. La civiltà materiale del grano e delle merci non è solo scambio economico, ma produce forme di convivenza.

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