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Tra umano e disumano: andar oltre l’afasia

di Aldo Bonomi Volere la luna.it

Come andare oltre l’afasia cui induce la guerra? Come trasformare l’angoscia del ritrovarsi nel labirinto delle paure in volontà di mettersi in mezzo, dopo che la lunga fase di distanziamento da pandemia aveva già lacerato il tessuto delle relazioni costringendoci a fare esodo per ritessere nuova trama sociale? 

In un disordinato tumulto del sentire e del pensare cerco tracce di parole per andare dentro e oltre la paura, oltre quella dimensione del disagio esistenziale che Franz Kafka chiamava “la parte migliore di me”. Ho sempre pensato che a questo riconoscimento di fragilità umana dello scrittore praghese dovesse accompagnarsi il tentare di fare discorso e racconto, per me di farne sociologia delle macerie da trasformare in visione critica del mondo per andare oltre. Ed è questo che ho umilmente cercato di fare in questi giorni nel dialogare con Marco Revelli, ripartendo dalle macerie di Paraloup, dai paesi abbandonati e dai comuni polvere raccontati da Antonella Tarpino e dallo stesso Marco. Abbiamo cercato, in quei luoghi ai margini della storia dove più facile è la ricerca di senso, di costruire in questi anni angoli di spazio pubblico di decantazione e di elaborazione emotiva per contrastare ed evitare le continue tentazioni del rinserramento e del rancore, spesso alimentato e teorizzato dagli imprenditori politici delle paure. Abbiamo, con qualche presunzione, cercato di essere flebili “imprenditori politici della pace” anche quando la paura e il rancore si sono fatti comunità maledetta del sangue del suolo e delle religioni in guerra nella ex Iugoslavia, con tanto di nostrani teorici della “guerra giusta” e di concreti bombardamenti su Belgrado. Le virgolette sono necessarie perché allora, come ben ricorda anche Marco, iniziammo tra noi un ragionare partendo da due parole potenti del ‘900: impresa e militante, dando spazio pubblico ai sussurri del volontario come figura del “mettersi in mezzo” ai processi economici ed alla politica in una fase in cui l’Europa, come ebbe a dire allora Jacques Delors, “aveva perso il senso del tragico”.

Oggi non siamo forse ritornati nel pieno della tragedia con la guerra in Ucraina? Parafrasando Giuseppe De Rita che ai tempi della guerra in Iraq scrisse “Bevagna non va alla guerra”, potremmo dire oggi che Paraloup non va alla guerra e non manda armi per la guerra. In questo periodo Marco sta ripercorrendo la geografia della ritirata di Russia vissuta dal padre Nuto, così come dal mio, che attraversarono quegli stessi luoghi, oggi bombardati e sotto assedio, per giungere, nel caso di Nuto, a Paroloup per organizzare e partecipare alla resistenza poi diventata racconto di una tragedia epocale che è oggi monito di fronte ad una nuova tragedia bellica. Immagino che il prossimo 25 aprile a Paraloup si parlerà di come Paraloup non va alla guerra, ma basta ricordare e testimoniare? Certo vale il monito della storia verso un’Europa che ha perso il senso del tragico, ma che fare nel presentismo della guerra in cui siamo immersi, ove dominano le categorie del prussiano von Clausewitz del “padroneggiare il combattimento”, della “forza della passione” e della “politik”, cioè la geopolitica da imprenditori della guerra? Altro che Kafka… Basta mettersi in mezzo all’analisi geopolitica e dire, come ha fatto giustamente Fausto Bertinotti, che due torti non fanno la ragione e quindi prendere le distanze dalla Russia di Putin che fa la guerra e dalla Nato che l’ha accerchiata, con l’Ucraina in mezzo? Non basta, perché in mezzo non c’è solo il confine geopolitico, c’è quello tra l’umano e il disumano. Così come non basta fare esodo, forma di resistenza a cui eravamo già arrivati ben prima della guerra, quando analizzavamo il lento attraversamento del deserto post-pandemico delle carovane dei lavori in direzione ostinata e contraria, una in fuga dal lavoro e l’altra alla ricerca del lavoro, con le oasi delle economie in metamorfosi in adorazione del vitello d’oro del PNRR, manna dal cielo europeo.

In questo quadro già ci eravamo detti che non bastava andare di oasi in oasi facendo carovana tra le comunità concrete alla Paraloup. Dialogando con De Rita sulla società frammentata e dispersa avevamo iniziato a ragionare sulla necessità di cercare carovanieri della rappresentanza e tracce di riconnessione della moltitudine nell’esodo attraverso il deserto. Ora, nella tempesta di sabbia della guerra, la fuga dalle città ucraine bombardate ci appare in una dimensione di esodo biblico, la carovana dei profughi fugge da quello che Elena Granata chiama URBICIDIO, tragica parola di distruzione dell’abitare e delle forme di convivenza, anche questa coniata dai suoi colleghi architetti ai tempi della guerra nella ex Iugoslavia. Ma nella sua dimensione di potenza geopolitica e nella dimensione di lunga deriva storica nell’Europa del tragico e nella potenza apocalittica della fuga di massa delle carovane dei profughi ucraini rispetto alle guerre iugoslave in cui cercammo di metterci in mezzo allora, oggi non vedo e non vediamo uno spazio pubblico promosso e interpretato da “imprenditori politici della pace” all’interno del quale aprire un dibattito nelle contraddizioni delle politiche, si diceva allora, contro i sostenitori delle guerre giuste poi continuato contro gli esportatori di democrazia manu militari. Mi pare che tutti si siano messi l’elmetto: vi armiamo per la guerra, purché non nel nostro giardino. Che poi, a ben vedere, è un giardino arso e riarso, a rischio di desertificazione ed alla canna del gas, ma oggi noi lasciamo da parte la conversione ecologica, torniamo al carbone, come se quella fosse una tragedia rimandabile.

Ma torniamo, senza andare molto distanti nel tempo, a come è cambiato il presidio del confine polacco. Sino a poche settimane si arrestavano quelli che accendevano le lanterne verdi per segnalare ai profughi che arrivavano da sud est o dall’ Afghanistan una possibile via di accesso e di aiuto qualora avessero oltrepassato il filo spinato. Ora, giustamente, le frontiere sono aperte e le lanterne verdi sono diventati parte dei “volontari reclutati” nella catena logistica bellica, perdendo il loro essere contraddizione vivente capace di mettersi in mezzo per la pace, come fu ancora a Sarajevo o nelle città di frontiera tra Serbia e Bosnia. Non più lanterne per uscire dal labirinto delle paure, ma crocerossine di un esodo, che, mi auguro, non selettivo per il colore della pelle o per provenienza, cancellando la domanda “da dove vieni straniero?”. Nel nostro ragionare nell’esodo postpandemico avevamo già affrontato il tema della crisi del welfare e della sussunzione del terzo settore reclutato nello stemperare la sua radicalità da voce del margine che chiede inclusione a crocerossina della società dello scarto. Nel salto d’epoca e nel salto di secolo abbiamo seguito il declino del militante e lo stemperarsi della radicalità del volontario. Forse dovremmo prendere atto che non si tratta più di cercare il soggetto tondino di ferro del cambiamento o i luoghi emblematici da territorialisti che fanno resistenza tra flussi e luoghi come oasi di utopia ma capire, e la guerra lo fa capire, come metterci in mezzo tra l’umano e il disumano. Senza dimenticare che lavorare per un umanesimo adeguato ai tempi dell’esodo senza terra promessa attiene, in prima battuta, alla sfera prepolitica. Quindi, come “metterci in situazione” per andare oltre l’afasia e l’angoscia delle paure, oltre il rinserrarsi a Paraloup che non va alla guerra, oltre il “not in my name”?

Ho provato a scomporre e ricomporre il nostro essere situazionisti nella duplice accezione di rimando alla società dello spettacolo e di “situarsi”, di trovare luogo, oasi di pace, tra i flussi della società dello spettacolo con tanto di missili ed il luogo occupato dai carri armati. C’è stato un salto di qualità nel racconto della guerra in Europa e forse anche per questo, non sembra più una tragedia reale da evitare, ma spazio di un metaverso da società dello spettacolo, in cui collocare anche i buoni sentimenti, purché ciò non presupponga il situarsi là dove stanno i carri armati, terreno per gli inviati con l’elmetto, loro stessi a rischio per alimentare lo spettacolo, anche quello di bambini che imparano a fabbricare molotov. In questo metaverso, lo spazio mediato del pacifismo viene occupato da imprenditori politici della paura travestiti da agnelli, da realisti propugnatori di forniture di armi, mentre i giovani in piazza vengono ridotti a quelli che fanno la loro parte di giovani. Intanto passa lo stanziamento di bilancio tedesco per il riarmo, a proposito della perdita del senso del tragico, e la risposta più che cercare la pace come imprenditori della pace attraverso la diplomazia di pace, passa alle sanzioni nel metaverso della finanziarizzazione, anche questa non raccontata nei suoi effetti reali nel situarsi con effetti reali dentro la vita nuda di chi “rimane sotto”, sia in Russia che nello spazio europeo. Direi che per la prima volta, dopo la lotta di classe dall’alto, stiamo assistendo alla devastazione delle coscienze in primis e poi sul terreno della guerra dall’alto praticata con la potenza dei mezzi della società dello spettacolo, rete finanziaria globale e social compresi, stiamo assistendo alla realizzazione di un metaverso disumano. Il mio amico Michele Mezza, sempre alla ricerca del soggetto, mi dice che ci salverà Anonymous nel suo hackerare la rete degli uni e degli altri. Pia illusione. La guerra non è un metaverso ma il suo esatto opposto, il disumano oltre l’umano e fatto di corpi martoriati e devastati. Qui occorre ricollocare il racconto disarticolando lo storytelling suadente dell’andiamo tutti alla guerra prima che sia troppo tardi, ricordando a noi la ritirata di Russia dei nostri padri e a Putin di rileggersi Dostoevskij che ci mette in guardia da quelli “convinti come sono che sia necessario rinchiudere il proprio vicino per convincersi del proprio buonsenso”.

Dunque, quale racconto e quali categorie mettere in mezzo tra il metaverso e il situato nel territorio? Frugando nella cassetta degli attrezzi saltano all’occhio due concetti utilizzati nell’analisi dei sommersi e dei salvati nel salto di secolo, quelli della “nuda vita” e della “vita nuda”. Con nuda vita ci si riferisce alla sfera umana del pensiero, del ricordo, della comunicazione oggi messa al lavoro nella società automatica dell’algoritmo. E’ una composizione sociale che nella pandemia ha ingrossato lo sciame dei lavoratori da remoto, riversando quel po’ di militanza sciamando nei social, assumendo nel metaverso mille sfumature sulla guerra, sino alla volatilità radicale di Anonymous. Ma sono anche corpi, corpi al riparo dalle bombe, ma non per questo corpi fermi visto che, per fortuna, sono ancora in tanti a partecipare alle manifestazioni in presenza, pur attraversate dai molteplici distinguo nello sfumarsi della memoria militante del ‘900 e negli interrogativi del volontario. Sono i salvati, siamo i salvati, che guardano da qui ciò che avviene là, in un altro luogo. Là c’è la vita nuda dei sommersi, dei corpi umani ridotti alle esigenze primarie della sicurezza fisica, dell’alimentarsi, del dissetarsi, del ripararsi dalle intemperie. La difficoltà o l’impossibilità di soddisfare questi bisogni fondamentali fa di questi corpi dei profughi di guerra in cerca di rifugio altrove. Mi domando e vi domando, pur tenendo conto delle differenti quanto fondamentali condizioni materiali, quale sia la natura dell’empatia che mette in relazione i militanti dei social, quelli che ancora camminano per strada manifestando e la nuda vita dei sommersi, dei profughi, accolti nella mobilitazione. E un un’empatia che si fa simbiosi contro la guerra, o un’empatia che a suo modo alimenta la guerra situata e non fermata? Non vediamo forse chi sta sopra e altrove dividersi senza comprendere che solo espellendo il codice della guerra sarà possibile allontanarla da sé e da quelli che ce l’hanno in casa ridotti a nuda vita in fuga? E’ una questione della quale avremmo dovuto essere già consapevoli guardando perché in fondo ci si era già presentata qualche settimana fa guardando all’andamento dell’economia e ci era già entrata dentro nei miti e nei riti del quotidiano attraversamento del deserto. Nel nostro attraversare mossi dal miraggio delle terre del digitale e della riconversione ecologica era di attualità dirci che nella terra promessa avremmo persino trovato il nucleare pulito, mettendo in difficoltà quelli che nell’esodo sostenevano giustamente di andare verso le oasi delle energie dolci. Oggi, nel flusso della guerra e delle sanzioni tornano di attualità le centrali a carbone, l’incubo di Chernobyl, mentre la manna del PNRR rischia di trasformarsi in pioggia acida. Altro che pensare a come alimentare la guerra, la pace ci è necessaria come l’acqua, anche per noi che siamo in mezzo al deserto senza il miraggio della manna. Anche per questo occorre frenare questa triste euforia guerresca che serpeggia nel metaverso e far capire quanto anche noi abbiamo bisogno di bere pace raccontando l’arsura delle nostre analisi. Senza una piattaforma di pace diventano polvere la piattaforma digitale, le piattaforme manifatturiere, le piattaforme agricole, quelle dell’urbano-regionale, quelle della conversione ecologica, quelle del sociale inclusivo e del nuovo welfare di cui ho scritto (“Oltre le mura dell’impresa” Bonomi 2021) invitando a guardare oltre le mura dell’impresa a quel territorio in metamorfosi che mette al lavoro la società tutta dentro un meccanismo di iper-industrializzazione della vita quotidiana.

Marco Revelli nel commentare il libro suggeriva di ritornare al Gramsci di “Americanismo e fordismo” per capire il neo-fordismo della tecnica e degli algoritmi che fanno della moltitudine dispersa nelle piattaforme un volgo disperso messo al lavoro. E Putin traccia con l’invasione piattaforme con i suoi carri armati che diventano sacche per una umanità esposta alla morte. Dal metaverso si risponde mettendo in gioco quella che i commentatori hanno chiamato “l’arma nucleare delle sanzioni”, ovvero la potente piattaforma SWIFT che dal metaverso colpisce oligarchi ma anche quelli situati in basso. E’ un gioco di specchi tra la piattaforma finanziaria che sorvola le colonne di carri armati e l’incedere inarrestabile delle stesse verso Kiev. E’ una rappresentazione emblematica dei due fordismi intrecciati che si confrontano nella guerra: quello iperfordista degli algoritmi che legano la finanza globale e quello che ancora si regge su gas, petrolio, acciaio dell’industria pesante, compresa quella per i carri armati. Si confrontano due fasi e due modelli di verticalizzazione. Due processi di dominio dei flussi che impattano nei luoghi: quello della piattaforma del metaverso e quello che invade per disegnare piattaforme territoriali strategiche tra Crimea e Donbass. Per usare il nostro linguaggio (mio e di Marco) in mezzo a questi due fordismi appare il capitalismo molecolare delle molotov della resistenza ucraina come stracci umani  che volano. Discorso che ci porta dritti dalla geoeconomia alla geopolitica con tanto di esperti, cosa che noi non siamo, subentrati ai virologi nello spiegarci come va il mondo.

Timidamente avanzo un appunto sul quale lavorare: questo dispiegarsi del capitalismo politico si confronta nei tre modelli geoeconomici americano, cinese e russo. Non pare esserci dubbio che l’invasione dell’Ucraina confine d’Europa acceleri la formazione di un capitalismo politico europeo, con tanto di stanziamenti di bilancio per il riarmo, che accelererà il divenire di un’Europa dall’alto, con continue crisi e salti dei processi democratici, che poi a ben vedere è la cifra che caratterizza il capitalismo politico. Fibrillazioni che ridisegnano lo spazio globale, basti pensare alla Turchia o all’India, alla ricerca di ruoli in una globalizzazione senza più impero. Da oltre un decennio la globalizzazione soft dei mercati si è fatta hard con tanto di “terza guerra mondiale a pezzi”, come aveva profeticamente detto il Papa. Oggi uno di questi pezzi riappare là dove la seconda si era conclusa a monito per l’umano. Monito della storia di fronte al quale l’umano di oggi appare prostrato, silente, senza voce; proprio in quei luoghi attraversati dai nostri padri nell’esodo dalla guerra, in quei luoghi che ricordano lo sterminio e la shoah e il genocidio nella non lontana Armenia sembra che l’umano abbia perso la memoria. Ma ammesso e non concesso questo dilagare dell’internazionale dell’indifferenza, che per ciò che riguarda Putin, primo responsabile nell’avere valicato i confini territoriali ed il confine della guerra, è ancor più grave pensando ai milioni di morti del popolo russo della seconda guerra mondiale (in Russia chiamata guerra patriottica), continuo a chiedermi perché non prevalga la parola pace, almeno di fronte alle catene di immagini della vita nuda dei profughi. Quale apocalisse culturale ci ha così prostrati da essere proni e disponibili ad alimentare guerra sul terreno? Forse perché siamo convinti che ormai ebbri di finanzcapitalismo a noi basta fare la guerra con i soldi ai soldi attraverso le sanzioni, indifferenti a nostra volta sul come ed a chi cadranno in testa come bombe nel vivere quotidiano? Eppure, a proposito di apocalisse nel salto di secolo, non bastasse la memoria del ‘900 abbiamo scavallato il secolo con l’11 settembre della comunità maledetta del sangue e delle religioni volata nel cielo per portare la guerra cui hanno fatto seguito le guerre per “esportare la democrazia”. Siamo poi giunti sull’orlo del baratro interrogante della crisi ecologica per ragione sul come contenere e cambiare i flussi che impattavano nei territori, che mangiavano la terra, che estraevano risorse nell’epoca dell’antropocene.

La nostra generazione, qui era arrivata cercando di mettersi in mezzo tra i flussi e i luoghi; quelli della finanza, delle transnazionali, delle reti hard e soft, delle internet company. Sempre cercando, per dirla con Paul Ricoeur, di decodificare e mettersi in mezzo alla bulimia dei mezzi che produce l’atrofia dei fini. Nel cercare di mettersi in mezzo per cambiare ci è venuto dentro, non solo nei luoghi ma dentro i nostri corpi, il flusso della pandemia con la sua carica virale della distanza fisica che si è fatta distanza sociale codificata dallo stato di emergenza. Così si è fatto avanti, per paura del corpo malato, il virus dell’immunitas rispetto alla communitas, tant’è che scrivevo e teorizzavo la necessita di ricostruire una comunità larga per fare esodo ed attraversare il deserto. Ed ora come ultimo flusso, capace di piegare quelli delle economie, compresa quella del metaverso, irrompe quello della guerra nel suo imporre la continuità, come ci fossimo abituati, tra stato di emergenza e stato di eccezione. Non pieghiamoci: la guerra con il suo immunizzarci nella logica binaria amico-nemico si può fermare solo ricostruendo, mettendo in mezzo tra l’umano e il disumano le forme di convivenza, ripartendo dal fare communitas delle forme di convivenza… e poi speriamo.

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