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Tornando su «Oltre le mura dell’impresa»

Spunti per un’inchiesta su tracce di soggettività e nuove istituzioni tra piattaforme digitali e piattaforme territoriali.

Pubblichiamo un contributo di tre ricercatori del Consorzio AASTER, coautori del volume Oltre le mura dell’impresa curato da Aldo Bonomi (DeriveApprodi, 2021). Gli autori, in questo testo, riprendono alcune osservazioni della recensione con l’intento di rilanciare la discussione sui temi affrontati nel volume, ponendo in primo piano la necessità di orientare il lavoro d’inchiesta territoriale sul terreno della soggettività e delle forme emergenti di organizzazione della società.

Questo contributo, che ovviamente non impegna gli altri autori del libro (né Aldo Bonomi), non è però una replica, piuttosto il tentativo di mettere a fuoco, partendo da alcune questioni poste da Alberto, ulteriori domande di ricerca. Muovendo però da alcuni caveat.

Il primo. Correttamente Magnaghi definisce il testo un «racconto»: la nostra esplorazione si basa sui materiali raccolti sul campo, che derivano perlopiù da «commesse di ricerca» (Aaster è un istituto che si finanzia attraverso il mercato) e prendono dunque forma nel contesto stabilito anche dal rapporto di committenza. Non pensiamo che ciò sminuisca la base empirica – al di là degli esiti della ricerca, che lasciamo al giudizio dei lettori – ma certo amplifica l’incompiutezza del nostro lavoro. «Oltre le mura», è scontato, non fornisce una rappresentazione esaustiva delle transizioni economiche e sociali dei territori, né cela dietro make up riparatori i suoi limiti, nell’auspicio di mantenere con l’acqua sporca anche il bambino (se c’è).

Seconda avvertenza, il testo cerca di tenere in equilibrio dimensione conoscitiva, normativa e «coscientizzazione dei processi». Data per scontata la distanza dal mito dell’avalutatività del ricercatore (fatichiamo anche a considerarci tali e talora usiamo il termine per mera comodità), nei nostri lavori ci sforziamo di non abusare di aggettivi qualificanti il nostro punto di vista – del resto non necessariamente convergente, Aaster è una rete professionale e non un collettivo politico – sui processi che descriviamo. Le valutazioni sulle trasformazioni in corso sono del resto implicite, come l’empatia verso i «luoghi che» – nelle geografie cangianti del lavoro – «non contano», per riprendere un tema di recente successo. Ci muoviamo in una società sussunta dagli imperativi dell’accumulazione, ma denunciare nei libri l’impatto di questo scopo sistemico del capitalismo sulla vita delle persone non ci aiuterà granché ad uscirne. Ad esempio, per dialogare con Alberto, è legittimo provare orrore verso il termine «piattaforma» e la reductio economicistica della biodiversità produttiva e culturale che porta con sé. Le piattaforme, termine che usiamo in modo un po’ peculiare, però sono anzitutto forme di organizzazione sociale e produttiva da decodificare. Altrettanto si potrebbe dire delle prospettive adottabili al fine di curvare in senso desiderabile (che significa – a scanso di equivoci – rafforzare il controllo collettivo sui processi economici, restituire «potere» alle società locali, o almeno realizzare un accettabile equilibrio tra efficienza economica, qualità sociale e ambientale, vita democratica) le tendenze esplicitate nel libro. Non riteniamo che spetti a questa sede «indicare la via», che si tratti delle «policy implication» che immancabilmente chiudono i paper degli scienziati sociali o di indicazioni «per le lotte» (che tanto faranno altri). Le possibilità di rafforzamento dei territori e dei soggetti, il nuovo iper-proletariato se volessimo recuperare un lessico antico aumentandolo con l’immaginifico linguaggio del solito Alquati, sono figlie nel presente e non viviamo un’epoca in cui sono i movimenti della «classe» a dettare l’agenda, sebbene le trasformazioni imposte dalle forze dominanti dell’economia incontrino contraccolpi, fughe, attriti. I libri non compensano però i deficit di soggettività politica, anche se rinunciare a prescrivere condotte non significa aggirare la necessità di cercare direzioni auspicabili, come facciamo nelle conclusioni.

Terzo, adoperiamo per la loro possibile utilità euristica termini forse discutibili sul piano del rigore scientifico, come capitalismo «intermedio» o «di territorio». Non dobbiamo scoprire nel XXI secolo la matrice sistemica del capitalismo, come trama di rapporti sociali dispiegata sul sistema-mondo nella sua interezza, sia pure con effetti locali diversi, nella concorrenzialità dei centri di comando e nell’eterogeneità organizzativa e regolativa (come ci insegnano le diverse letterature sulla varietà dei capitalismi). Utilizzare quei concetti serve nelle nostre intenzioni a rimarcare i modi affatto peculiari con cui si è data nel nostro paese (e nelle regioni che ne compongono il mosaico) la formazione di assetti pienamente capitalistici, poiché sono questi scostamenti a marcare la nostra vita sociale e politica, i problemi dello sviluppo e anche i fenomeni socio-politici. Perfino il «momento populista» si è manifestato in Italia in forme idiosincratiche, indecifrabili se non si tiene conto delle specificità (e peculiari distorsioni) del nostro modello sociale.

Non ripercorriamo qui l’insieme degli argomenti proposti da «Oltre le mura». Per interagire con le sollecitazioni di Alberto è tuttavia necessario dare un quadro almeno sommario della parte analitico-descrittiva del libro, in cui proponiamo una revisione sostanziale dell’apparato concettuale già utilizzato per ricondurre a rappresentazioni convincenti la transizione del «capitalismo italiano», mentre dismetteva i poli della produzione di massa e gli esperimenti di economia mista che ne avevano accompagnato lo sviluppo. «Oltre le mura» infatti è stato scritto nella pandemia ma non è un instant book. Abbiamo cercato di non restare imprigionati nella congiuntura, anche quando si presentava come passaggio epocale, cercando di leggere il salto nella cornice delle tendenze di medio periodo. Da una parte, scriviamo, è necessario un superamento definitivo delle rappresentazioni del post-fordismo, dall’altra la consapevolezza per cui i nuovi assetti non nascono per forza sulle vestigia del passato, ma anche ricombinandole. Il postfordismo e l’Italia dei distretti sono alle nostre spalle. È passato un quarto di secolo da quando Bonomi «raccontava» il capitalismo molecolare, già allora in fase discendente. Si è trattata, se misurata con il metro dei cicli storici, di una stagione breve e resta forse da discutere la fondatezza del suo essere isolata in modo specifico, piuttosto che come variante interna dell’Italia industriale o congiunzione tra il capitalismo novecentesco e quello emergente. Parlare di metamorfosi postfordista non fu comunque esercizio sterile; senza quel bagaglio sarebbe infatti difficile vederne l’evoluzione successiva tratteggiata nel testo.

Laddove l’agglomerato della produzione di massa veniva smontato e decentrato impoverendo le città di origine, in altre regioni (in particolare nel triangolo lombardo-veneto-emiliano) l’economia diffusa delle famiglie-impresa evolveva in nuove configurazioni, allungava i distretti disarticolandoli, si connetteva con il terziario urbano (fatto di marketing e design, certo, ma anche ricerca, competenze formali, capitale tecnologico, finanza, moderate iniezioni di managerialità), entrava nelle catene globali del valore o era protagonista di un’espansione in proprio su mercati di nicchia. Restando capitalismo imprenditoriale per sostanza e cultura, questa schiera di medie e medio-grandi imprese aperte ai mercati mondiali e con evidenti radici nei retroterra territoriali da cui originavano, stavano ridisegnando lo spazio produttivo e sociale delle regioni in cui la loro presenza era più densa. Non fu un processo lineare e si realizzò molto all’italiana, come sommatoria di casi (anche di successo) nella sostanziale assenza di vere cornici istituzionali, di cui l’insufficiente dotazione – capitalisticamente parlando – di beni collettivi (infrastrutture energetiche e logistiche, reti digitali, centri di produzione e trasferimento cognitivo e tecnologico) è forse l’aspetto tuttora più evidente.

Con «capitalismo intermedio» abbiamo inteso essenzialmente questa traiettoria di cambiamento che ha selezionato una componente industriale più efficiente (dunque in grado di finanziare l’innovazione richiesta per partecipare al big game delle catene del valore globali) e ricacciato ai margini o nel limbo dell’indebitamento condizionatamente sostenibile un grande numero di operatori, la cui sopravvivenza appare legata soprattutto al basso costo dei fattori produttivi. E’ seguendo queste transizioni, inoltre, che abbiamo iniziato a parlare di «piattaforme». Il termine, dieci-quindici anni fa, indicava per noi questa riorganizzazione spaziale, che dava vita ad un ibrido urbano-territoriale non più leggibile secondo la dicotomia centro-periferia. Questo tipo di organizzazione produttiva e spaziale ha avuto (e ha tuttora) maggiore condensa sulla pedemontana lombardo-veneta e sulla via Emilia, dove del resto le esternalità ambientali e paesaggistiche appaiono anche più evidenti, ma non è che il Piemonte (finanche la bassa Langa dei paesaggi certificati Unesco) o la città adriatica romagnolo-marchigiana o la valle dell’Arno, presentino assetti qualitativamente diversi. In queste piattaforme si incastrano e interagiscono poli manifatturieri evoluti e residui distrettuali, gli spazi neo-industriali della logistica e della distribuzione con i loro flussi d’interconnessione e di ultimo miglio, tecnopoli, fabbriche verdi del cibo e, certo, anche isole di biodiversità resiliente che mettono a valore produzioni tipiche (e tipicizzate), divenute però marchi almeno medio-industriali. Trame del produrre e del valore, con un’armatura di città medie che assicurano servizi, welfare e sedi riproduttive delle conoscenze richieste dalla produzione contemporanea. Un mondo, beninteso, tutto fuorché idilliaco, ma che fino a ieri ha tenuto agganciata l’economia italiana, sia pure in posizione subalterna, al mondo sviluppato.

Fin qui siamo però alla ricostruzione di quanto avvenuto prima della doppia crisi del 2008 e del 2011-2013. Nel libro proviamo ad argomentare che nella dinamica più recente anche il ciclo del «capitalismo intermedio» ha raggiunto il suo tetto di cristallo e, forse, ingaggiato la curva discendente della parabola. Ce lo dicono la cessione di assetti proprietari, l’integrazione subalterna nei centri forti della produzione manifatturiera (soprattutto quella tedesca), l’innalzarsi delle risorse richieste dalla transizione ecologica e digitale, la difficoltà a riprodurre sul territorio i beni collettivi, materiali e intangibili. L’ipotesi di una transizione neoindustriale guidata dalla piattaforma padana si è scontrata con i limiti intrinseci di questa organizzazione produttiva e con i suoi limiti istituzionali. Quello che viene avanti è un assemblaggio diverso, in cui però i lasciti materiali, le rappresentazioni culturali e la domanda politica del ciclo precedente sono ancora materia viva e operante.

Si renderebbe qui necessaria, al fine di restituire per sommi capi gli argomenti del libro, una riflessione articolata per livelli. Il nostro campo di osservazione, abbiamo detto, è ancorato al territorio, ma serve contezza dei modi in cui si sta ridisegnando il gioco, per stare allo schema di Aldo Bonomi, tra «flussi» e «luoghi». Che è poi un modo per richiamare l’attenzione sui nessi tra lo strato di vertice del capitalismo globale, le economie intermedie di produzione e di mercato, la vita materiale e quotidiana, per riprendere, mutatis mutandis, la nota stratificazione braudeliana. E’ quanto si cerca di raccontare mettendo in fila indizi, osservazioni territoriali, ipotesi interpretative in «Oltre le mura».

Le piattaforme territoriali del nostrano «capitalismo intermedio» sono divenute – non da oggi, ma con crescente intensità dalla crisi del 2008 – terreno di confronto, conflittuale e sinergico tra logiche che sottendono diversi modelli di accumulazione. L’affermazione delle piattaforme digitali e delle logiche «iper-industriali» di management algoritmico stanno trasformando infatti i nostri territori. Quando parliamo di piattaforme digitali intendiamo, di nuovo euristicamente, un insieme di processi e maniere organizzative che eccedono il platform capitalism in senso stretto. L’applicazione pervasiva delle nuove tecnologie (di calcolo, datificazione, simulazione, profiling, monitoraggio, distribuzione, remotizzazione, ecc.) al mondo produttivo, di cui Industria 4.0 ha rappresentato per molte aziende un passaggio di alfabetizzazione, all’organizzazione del lavoro, alla distribuzione di merci tangibili e immateriali, alla circolazione monetaria (dalla turbofinanza ai micropagamenti) e sempre più alla sfera riproduttiva, non conduce solo a Uber, Amazon, Spotify, Netflix, Glovo o Air BnB, ma coinvolge un insieme crescente di attività, lavori e pratiche sociali. Non crediamo tuttavia che il centro della riflessione risieda nella dimensione tecnologica, sebbene questa fornisca il framework materiale delle trasformazioni in corso.

Questione sostanziale è viceversa la crescita (guidata da una pluralità di agenti non solo imprenditoriali) di un’economia di sussunzione della riproduzione sociale e della vita quotidiana. E’ questo il lato oscuro di concetti appealing come smart city. Ipotizziamo che riproduzione (salute, conoscenza, cibo in primis), abitare, mobilità, utilities siano tra le industrie emblematiche della fase emergente, sfere che le macchine digitali consentono di organizzare con criteri «industriali» prima inapplicabili, consentendo di ridurre l’indeterminatezza e la varietà verso una (almeno relativa) prevedibilità e una (parziale) standardizzazione. Da questa visuale, si potrebbe dire che la smart city (ma anche la cosiddetta social innovation) siano il guanto di velluto che avvolge il pugno d’acciaio del nuovo capitalismo dei flussi, sia pure con possibili ambivalenze. Questa economia ha nei centri urbani (con la loro densità, i loro bacini di forza-lavoro istruita per i ruoli smart e di popolazioni in esubero per i compiti poveri che la nuova economia richiede non meno dei laureati STEM, come gli studi sulla job polarization hanno posto in luce cestinando decenni di retorica sull’upgrading die saperi che avrebbe seguito il cambiamento tecnologico) il punto di precipitazione e propagazione, ma investe in realtà l’intero spazio produttivo e sociale.

Sarebbe fuorviante leggere queste trasformazioni come avvicendamento. Le piattaforme digitali non svuoteranno le piattaforme territoriali a base manifatturiera, poiché si nutrono della loro capacità produttiva, del lavoro socializzato che le alimentano, della capacità di consumo dei suoi abitanti-produttori e, certo, anche della becattiniana «molla caricata nei secoli» del patrimonio conoscitivo sedimentato nei luoghi. La logica intima di questa economia non è abolire le reti di produzione, di mercato e di riproduzione a base locale, semmai la loro cooptazione (riprendiamo il concetto dal lavoro di David Stark e Ivana Pais sul management algoritmico), nell’ambito di processi di scomposizione e riorganizzazione dei lavori. La piattaforma digitale non può fare a meno della piattaforma territoriale, gli algoritmi applicati alla produzione industriale delle industrie, e così via: le catene sono sempre reciproche. Certamente, però, si ridefiniscono le gerarchie economiche e sociali, le metriche del valore, la composizione dei gruppi dominanti e subalterni, le geografie del lavoro. Per tornare alle nostre piattaforme territoriali, ad esempio, sono in corso processi di ibridazione e di ricombinazione del «capitalismo intermedio» con questi giocatori dominanti, in un rapporto che non è solo sinergico (come non è mai stato del resto quello con la finanza), ma è anche conflittuale e che non a caso domanda oggi un ruolo della statualità, ad esempio sulla titolarità dei dati e sulla necessità di nuove regole in materia di oneri sociali e fiscali. Covid ha accelerato queste trasformazioni, che tuttavia erano già operanti: sono oggi gli agenti dell’economia industriale a ricercare nel digitale e nell’economia del dato (e in modo più ambiguo, nella transizione ecologica) nuovi vantaggi competitivi. C’è molto green washing, d’accordo, e molto social washing. Tuttavia, se ci limitassimo a denunciare questo, faremmo poca strada: le frazioni più avvedute del mondo imprenditoriale sanno che se restano ancorate all’autosufficienza neo-fisiocratica della manifattura sono destinate a soccombere. Come fatalmente accade ad altre componenti del mondo produttivo e a parte dell’economia di servizi vulnerata dalla pandemia e sfidata dalle piattaforme digitali.

È problematico pensare che questo tessuto imprenditoriale delle piattaforme produttive sia esterno alla sfera del capitalismo poiché distante dal nucleo di vertice dell’economia internazionale la cui peculiarità è la non specializzazione in una branca economica, dunque la sua plasticità e capacità di spostare capitali immensi dagli investimenti meno efficienti a quelli più redditizi (ciclicamente, riprendendo Arrighi, nell’economia materiale e nella finanza). La cooptazione di questa sfera «intermedia» e della vita sociale, segna per noi un punto cruciale della riflessione sui territori: oggi finanche lo spazio domestico è sempre più permeato nei processi generativi di valore appropriato dai player dominanti!

In questo passaggio non abbiamo solo decostruzione delle prerogative che hanno permesso (in modo selettivo e con quote crescenti di parzialmente inclusi e patologicamente esclusi) ad ampi settori della nostra società di beneficiare di dignitose condizioni materiali. In apparenza, la piattaformizzazione sembrerebbe impoverire i servizi locali e indurre lo smontaggio degli uffici, dopo che a essere smontate furono le fabbriche, e aprire la strada alla de-spazializzazione (il libro di Baldwin sulla Globotica ipotizza proprio questo). Ma la posta in palio di questa transizione è davvero l’irrilevanza del territorio? La nuova onda digitale ha come bersaglio la rimozione dei costi della prossimità, ma ciò andrà di pari passo con la necessità di alimentare di socialità e scambio le relazioni produttive. Fino a quale punto, del resto, i processi qui sommariamente tratteggiati sono «conclusi» e privi di contraddizioni? La cooptazione dei territori (persone, reti produttive, pratiche sociali) nel regime monolinguistico del valore è un dato o piuttosto una tendenza in cui vi sono però anche contraccolpi e attriti? Quanto sui territori «residua», nel senso che Claudio Napoleoni attribuiva al termine («l’inclusione della realtà nella produzione e nella sua legge non avviene senza residui consistenti […]non realtà naturale sopravvissuta all’assalto della storia, ma realtà configurate dal capitale ma non assorbite entro la sua dimensione specifica della produzione come fine a sé stessa», così l’economista nel 1985)?

Dato il frame, il problema è quali prospettive possono essere auspicate per restituire livelli di autonomia e di controllo ai «luoghi», che detta così è una proposizione un po’ vaga, che intendiamo sommariamente nel triplice significato di 1) migliorare le condizioni materiali (redditi, qualità della vita, benessere sociale e ambientale) delle maggioranze che nei luoghi vivono e lavorano, 2) di capacità dei cittadini e delle organizzazioni di esercitare un controllo (o almeno contrattare) sulla qualità e adeguatezza dei beni fondamentali per la riproduzione, 3) la capacità di redistribuire il valore generato dall’attività produttiva. Senza visioni organicistiche: non reifichiamo i «luoghi» come attori unitari o comunità di interessi convergenti; i flussi hanno i loro agenti in carne e ossa e anche costoro vivono nei territori e vi agiscono i loro ruoli (e non sono solo l’1%!!!). Per lo più quello che si legge è l’impasto di dialettica e mediazione tra coalizioni concrete di attori flussi-luoghi rispetto ad altre coalizioni flussi-luoghi. Utilizziamo qui le osservazioni di Alberto (sui nodi irrisolti presenti nel libro) come occasione per riprendere e rilanciare due riflessioni.

Magnaghi pone garbatamente in luce uno dei limiti del nostro lavoro, ma in realtà indica un punto essenziale dell’agenda di ricerca, quando constata che «mappare o suggerire topografie e schemi per leggere il capitalismo sul piano oggettivo dei flussi e delle geografie produttive, è tutto sommato la parte più semplice e più scontata», laddove «cogliere la composizione soggettiva che viene avanti è il vero terreno su cui soprattutto a sinistra si è scoperti». Il punto è cruciale, a fortiori quando si assuma che la «composizione soggettiva» non scaturisce naturaliter dai movimenti del valore, non è il rovesciamento simmetrico della trama di ruoli determinati dalla divisione sociale e tecnica del lavoro, per quanto ovviamente non poggi sull’aria. Non basta dunque leggere gli assetti produttivi per trovare la composizione soggettiva, in altre parole il combinato di disposizioni, valori, credenze, orientamenti all’azione, trame connettive che danno forma e innervano la società (dentro e fuori delle mura delle imprese), prodromiche dell’agire collettivo e dei riconoscimenti reciproci che possono alimentarlo. Ci limitiamo qui ad osservare che questi sono legati a molti fattori di tipo culturale, politico o sociale in senso lato, che vanno indagati non meno che le trasformazioni dell’assetto economico, e che sono anch’essi in movimento. Anche nelle pubblicazioni di area critica, ci sembra, l’esigenza di indagare i nessi tra posizione oggettiva delle persone (come lavoranti, consumatori, riproduttori) e dimensione soggettiva, o se si preferisce un linguaggio desueto tra ciò che il pensiero operaista definì composizione «tecnica» e «politica» di classe, sia stata accantonata. Al più, troviamo analisi (anche interessanti) di taglio analitico/oggettivistico sulla struttura delle occupazioni e dei suoi nessi con la stratificazione sociale (ma qui la soggettività non è presa in considerazione), o sul versante opposto etnografie (altrettanto interessanti) su contesti così micro da sconfinare nel frammento, da cui trarre indicazioni di «medio raggio» è praticamente impossibile (e non perseguito, normalmente, dagli autori). Non mancano eccezioni, programmi di ricerca sui ceti medi, meno sulle classi popolari, carotaggi su specifiche situazioni organizzative o gruppi professionali, ma è evidente che su questo piano siamo scoperti. In questo libro c’è un chiaro rinvio alla necessità di portare lo sguardo, e l’inchiesta, in una logica complessa, che guarda dentro e fuori l’impresa, cercando di cogliere la nuova articolazione a cavallo tra lavoro e società. Ma è un proposito su cui, per essere onesti, siamo al balbettio, direbbe Bonomi.

La seconda osservazione entra nel merito di uno dei temi portanti del libro. Alberto pone l’accento sul proposito, esplicitato da Aldo, di «ricostruire istituti di intermediazione politico-istituzionale», in altre parole una «società intermedia» in grado di «mettersi in mezzo» nella tensione tra flussi e luoghi, allo scopo di restituire margini d’iniziativa alle soggettività sociali e contrattare autonomia, controllo (potere) con i «padroni» delle odierne condizioni oggettive della produzione e della riproduzione. In breve, di corpi intermedi tra politica, economia e società. La distruzione delle istituzioni partecipative alla base del pluralismo democratico del ‘900 ha costituito un obiettivo esplicito dell’offensiva «neoliberale» (si usa il termine per velocità più che per convinzione) a cavallo del passaggio di secolo. L’esigenza di una loro ricostruzione, in forme adeguate al presente, accomuna la prospettiva di Bonomi ad altri autori: è questa ad esempio la conclusione del libro di Michael Lind sulla «nuova lotta di classe» che analizza i cleavage socio-territoriali che oppongono la super-classe dell’élite manageriale alla nuova working class a sua volta divisa tra autoctoni e migranti. Si domanda Alberto, non retoricamente, «come fanno i corpi intermedi attivi nei rapporti fra flussi e luoghi – autonomie funzionali, università, fondazioni bancarie e di comunità, reti sanitarie e del welfare, ecc. – a negoziare per conto di comunità locali e lavoratori, a rappresentare le comunità di luogo, se queste sono disperse, deboli o non esistono?». Ci sembra chiaramente un quesito non aggirabile.

L’idea che in fondo alla crisi dei vecchi corpi di rappresentanza e partecipazione, tra individui e centri di potere (finanziario, economico, politico) vi sia unicamente un vuoto occupabile dalla «sorveglianza» algoritmica, al limite «curabile» da professionisti della socialità, è una distopia di particolare successo presso la gente di sinistra, ma forse non è la realtà. In parte perché nel collasso degli organismi intermedi vi sono anche esperienze di tenuta e rilancio su nuove basi, in parte perché di embrioni associativi e pulviscoli (le «oasi» di cui parla Bonomi) di attivismo sono disseminati tutti i territori; infine perché riteniamo miope espungere dall’orizzonte l’ipotesi di un riformarsi (con modi tutti da esplorare) di organismi partecipativi, da cui possono alzarsi anche esperienze di nuova istituzionalità (era questa, in fondo, l’ipotesi stilizzata nel concetto di «ciclo della rappresentanza»). Non stiamo dando voce ad un wishful thinking: queste pratiche ci sono già, ma le lenti del civismo progressista, nella pandemia l’alleato più fedele della nuova statualità tecnocratica fondata sulla «competenza», probabilmente impediscono di metterle a fuoco. Un discorso specifico dovrebbe essere indirizzato verso le popolazioni organizzative e il variegato esercito delle professioni sociali, del welfare ed educative (che Bonomi chiama «comunità di cura» in senso stretto). Sebbene siano talvolta l’esito di processi aggregativi nella società, queste esperienze difficilmente possono essere interpretate come equivalente odierno della vecchia rappresentanza sociale e politica. I militanti politici di base, i sindacalisti, i quadri locali dei partiti e delle strutture partecipative religiose e laiche che organizzavano la partecipazione civica, avevano una base popolare cui erano effettivamente connessi e da cui perlopiù socialmente provenivano. Gli odierni «esperti» del sociale sono quasi sempre sradicati, ovvero sono radicati in comunità professionali relativamente separate, le loro reti prive di vere affiliazioni di massa. E i loro valori (si rimanda per questi temi alla lettura del saggio critico di Davide Caselli già recensito su queste pagine, https://www.machina-deriveapprodi.com/post/la-tragedia-degli-esperti) appaiono spesso mutuati dal lessico manageriale profit più che dalle comunità su cui intervengono. Nelle reti del lavoro sociale, formativo ed educativo (non staremmo a distinguere troppo tra pubblico e privato) vi sono potenziali ambivalenze da esplorare, forme di attivazione e contraddizioni tra etica professionale, ruolo lavorativo, istanze valoriali spesso sinceramente orientate alla produzione di beni pubblici; guardiamo con grande attenzione alla «comunità di cura», ma forse per ciò che alcune sue componenti potrebbero divenire, date certe condizioni, più che per il suo ingaggio ufficiale nella gestione delle esternalità prodotte dal funzionamento normale dell’economia.

Detto ciò, il problema posto da Magnaghi è effettivo. Alberto identifica, nella sua recensione, un «popolo» di riferimento, portatore di istanze progressive e perlopiù «di sinistra». Questa forza motrice, nella sua argomentazione, è rappresentata dalle

«relazioni orizzontali fra le molte energie socio-territoriali in crescita in ogni luogo (movimenti, associazioni, comportamenti socio-produttivi) che affrontano in forme autonome singoli aspetti della transizione eco-territoriale, per supportarle a realizzare forme di autogoverno locale in grado di condizionare «dal basso» gli obiettivi «della società intermedia».

È una prospettiva che merita rispetto e che poggia su pratiche esistenti, per quanto sia da osservare che date le condizioni di debolezza delle «comunità» è problematico che queste, come auspicato, possano produrre «istituti di autogoverno del territorio come bene comune».

Ci piace però ipotizzare che vi sia anche altro da esplorare. Con tutte le cautele del caso, una pista da seguire potrebbe essere che si sia aperto un ciclo di riaggregazione, attraverso forme di «voce» che si collocano per lo più ai margini degli allineamenti organizzati dai corpi intermedi della vecchia rappresentanza. D’altronde quest’ultima oggi viene erogata dall’alto come una sorta di servizio, una utility per il cittadino utente-cliente non più sovrano della democrazia. Ai margini, c’è una nebulosa che rappresenta forme emergenti che pur assumendo forma e composizione che paiono opposte, dal civismo ai «no green pass» al sindacalismo del neo-proletariato della logistica o delle campagne, ma che sono espressione delle faglie emergenti che ci mostrano l’ombra della dialettica futura. Tesi rischiosa certamente: ma quello che ci pare vada ricostruita è l’attitudine a ricercare e leggere le nuove legature tra culture organizzative emergenti, germi di nuove comunità di destino, spezzoni di composizione tecnica vecchia e nuova. Non è la forma esplicita della partecipazione (peraltro puntiforme) qui a contare, che per usare i termini di Bonomi sembra dividersi secondo le congiunture e i protagonisti tra «comunità del rancore» e «comunità di cura», quanto la sua materia sociale, le reti che intessono, cosa sedimentano, ciò che potrebbe accomunarle, i desideri che esprimono. Questi sommovimenti andrebbero «compresi», stigmatizzare o plaudire sono condotte da social network, l’ambiente meno generativo che esista. Ci sembra che quasi tutte le forme di partecipazione (di ogni segno culturale-valoriale) e aggregazione sui territori degli ultimi anni abbiano come protagonisti modali (degli strati attivi) soggetti emergenti dall’invaso «de-cetomedizzato» degli strati inferiori dei knowledge worker e delle professioni educative, sociali e tecniche (spesso del tutto “proletarizzati” in senso sostanziale); da qui provengono i nuovi attivisti delle piazze e del volontariato che fungono da snodi del tessuto partecipativo incipiente o slabbrato consegnatoci dal tracollo degli organismi partecipativi di massa e dei loro sostituti decentrati e sociali. Leggere, interpretare, anticipare i comportamenti facendo «inchiesta a tiepido»: diamo dei compiti a noi stessi, piuttosto che ai policy maker o alla gente iper-proletaria. E qui ritorna il metodo dell’inchiesta che forse potrebbe anche spingerci a rientrare dentro le mura dell’impresa (metaforiche, con la remotizzazione del lavoro vivo), per comprendere le fibrillazioni di ciò che si muove, o potrebbe muoversi, al suo esterno.

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