Editoriali e Interviste

Il terzo racconto del Mezzogiorno di Giuseppe De Rita

di ALDO BONOMI Microcosmi – Il Sole 24Ore

Sono spesso ingannevoli i titoli dei libri. Lo è anche “Il lungo Mezzogiorno” di Giuseppe De Rita nel suo rimandare ad un libro di storia, di storia si, ma nella lunga deriva della civiltà materiale, nella sua fenomenologia dello stare in mezzo ai processi sociali, tipica di De Rita, che ha titolato “Dappertutto e rasoterra” la sua storia di fondatore ed animatore del Censis. Anche questa volta disvela il titolo sottotitolando in copertina che «non è l’economia né l’intervento dall’alto (la grande storia) che fa sviluppo, ma il contrario». Rovesciando il paradigma ne fa un libro, non dico contro, non sarebbe da De Rita, ma indica un terzo racconto che si mette in mezzo tra economia e politica. Fragile come tutte le terze vie in politica, figurarsi nell’azione sociale sostanziata da assistenti sociali e da operatori di comunità, figure minuscole di tessiture sociali necessarie per il «fare sviluppo occorrono processi di autocoscienza e di autopropulsione collettiva».

È partendo da queste vite minuscole che ho incontrato De Rita quando realizzando progetti europei da “agenti di sviluppo mi disse: «Se vuoi capire come nasce e come fare sviluppo non guardare a Bruxelles ma guarda a sud all’azione nel sociale che viene prima delle economie». Ed è così che ho studiato gli operatori di comunità olivettiani a Matera ed il discorso di Adriano agli operai aprendo lo stabilimento Olivetti a Pozzuoli, ho incontrato Danilo Dolci a Partinico con la sua scuola per la coscienza di luogo, memoria della lotta per l’acqua compresa, il valdese Giovanni Mottura operatore di comunità ed ho fatto mio il motto di Sebregondi trasmessomi da De Rita «continuare a cercare per continuare a capire».

Ho capito che era possibile fare impresa con e nella comunità non calando dall’alto il fordismo, che ci vuole empatia alla Danilo Dolci per continuare a cercare per capire, ed anche chi, dopo aver fatto l’operatore di comunità a sud come Mottura mi diceva che il problema stava a nord con la grande Fiat che come una idrovora attraeva forza lavoro relegando gli operatori di comunità al ruolo di “crocerossine delle aree interne” e dei flussi di emigrazione. Si poneva il tema delle differenze territoriali tra nord e sud, la questione grande della questione meridionale, tema denso scavato nella politica.

Quello che De Rita chiama il primo racconto. Ed è qui, si legga il capitolo “L’insopportabilità dei dualismi: nord-sud, ricchi-poveri” che “De Rita l’impolitico” tratteggia la sua terza via tutta sociale, di intreccio più che di conflitto, fatta da approccio localistico riconosciuto da una politica che accompagna più che governare dall’alto. È la sua filosofia che ha caratterizzato la ricerca alla Censis: cercare e raccontare i localismi industriali a nord e le macchie di leopardo dello sviluppo a sud. Cosi sfidando e differenziandosi anche dal secondo racconto basato sull’obbiettivo dell’industrializzazione dall’alto, sull’intervento straordinario massiccio e concentrato nei tempi con lo Stato soggetto generale dello sviluppo.

Da qui il suo porre “I nuovi termini della questione meridionale” nell’intreccio possibile del sistema paese dei localismi che si facevano distretti continuando a scavare nell’identità “Sud: territori e identità” puntando più che sull’identità di appartenenza sulle identità di relazione dei territori. Da qui il suo “strabismo metodologico” da ricercatore della sezione sociologica della SVIMEZ che osservava dall’alto, poi lasciata con Sebregondi per fondare il CENSIS che accompagnava dal basso “rasoterra e dappertutto” i vitalismi locali. Da qui una attenzione nel raccontare, e qui ci vuole, il lungo mezzogiorno dell’eredità Svimez che, come tutti i romanzi di formazione, non si dimentica dialogando con Martinoli, più olivettiana di lui, con Scassellati e il suo provare con la formazione a creare una classe dirigente meridionale con il FORMEZ.

Sempre attento il nostro De Rita anche alla stagione della nuova programmazione alla Ruffolo ed ai ministri del mezzogiorno Pastore e De Vito dialoganti con la sua “eretica” filosofia. Infatti plaude alla Legge 44 che promuove l’imprenditorialità giovanile, quasi si volesse replicare a sud il lavoro autonomo dilagante al nord come capitalismo molecolare, veicolata sul territorio da Carlo Borgomeo che organizzava l’assistenza tecnica con cui mi ritrovai a lavorare come operatore di comunità nelle Missioni di Sviluppo (si deve a Bruno Trentin questa denominazione) che avevano come obbiettivo il promuovere nelle aree a sviluppo difficile inclusione attraverso l’autoimprenditorialità.

Insomma sempre in mezzo ai due racconti forti: quello tutto politico e quello dell’intervento straordinario e l’industrializzazione come flusso dall’alto sostenendo il localismo metodologico del territorio. Riscoperto anche dalla sinistra che, come spesso accade quando ti critica, ti riconosce, gli dedicò un articolo su Critica Marxista che titolava “De Rita si dà al folklore economico”. Quel terzo racconto non era solo sociologia di territorio, ma rimandava al dilemma, ancor oggi attuale, se lo sviluppo si fa con “più Stato” o interrogandosi dal basso su “quale Stato”. Dilemma che si fece teorico-pratico negli anni ’90 quando il terzo racconto si fece ipotesi di sviluppo con i Patti Territoriali promossi ed accompagnati dal CNEL (Consiglio nazionale economia lavoro) istituzione dolce delle parti sociali, presieduta da De Rita, talmente dolce da essere entrata anni dopo nel referendum sulla riforma istituzionale che ne chiedeva la cancellazione. Il libro ne dà resoconto puntuale di speranze suscitate ed incompiute nella fase finale del lungo mezzogiorno lungo il secolo breve.

Mi limito a far notare che quelle speranze di sviluppo dal basso si fecero domanda tanto da divenire un terzo racconto possibile, pur se incompiuto, perché si erano fatti deboli gli altri due racconti: quello politico nella metamorfosi della prima Repubblica e con il venire avanti della questione settentrionale, e quello dell’intervento straordinario con la chiusura dell’Agenzia per il Mezzogiorno. In quello spazio vuoto con le forze sociali, le rappresentanze delle imprese e del lavoro, la società di mezzo, e il vitalismo dei territori, Camere di Commercio, sindaci, vescovi compresi, e società civile, che iniziava a prendere voce, s’iniziarono a tessere coalizioni locali per lo sviluppo. È stata una grande esperienza accompagnare questa mobilitazione dal basso “di comunità locali che si riappropriavano del loro destino” esistenziale, sociale ed economico tant’è che qualcuno li denomino “il popolo dei Patti”. Parola pesante. Infatti il più fine teorico dell’autonomia del politico sentenziò: non ci faremo dare la linea dai cacicchi ed i tecnici esperti elaborarono sofisticate griglie di selezione della domanda e i Patti divennero procedure di offerta istituzionalizzate.

Ne ho un bel ricordo fissato nel libro con De Rita “Manifesto per lo sviluppo locale”. Con questa esperienza De Rita chiude il suo “lungo mezzogiorno”, lamentandosi del silenzio attorno al territorio che ha visto il prendere voce di tre racconti uno politico, uno economico ed uno sociale nel mezzogiorno del nostro paese. Forse non di silenzio si tratta, ma di salto di secolo colto anche da lui nel saggio che chiude il libro “L’ Italia fra Europa e Meditteraneo” che colloca il mezzogiorno dentro la geoeconomia e la geopolitica dei flussi globali. Certo il terzo racconto si è fatto sussurri rispetto al rumore dei flussi globali che impattano nei territori da nord a sud disegnando nuove geografie e differenze. Ma sempre più spesso nel mio fare tessiture sociali quando arrivo a sud c’è qualcuno che mi ricorda quando facevamo Patti Territoriali. Nel lavoro di accompagnamento che fa la Fondazione con il Sud del sociale che viene prima dell’economico presieduta da Borgomeo rivedo nelle Fondazioni di Comunità locali tracce degli operatori di comunità oggi fondamentali per un welfare di comunità.

Non sarà un caso se oggi, anche nel linguaggio politico, si denomina un ministero per la coesione sociale che sarà bene ricordare nasce dal basso, dall’esperienza dei Patti che costruivano prima la coesione e poi l’economico. Anche per l’esperienza olivettiana d’impresa in rete col territorio trovo tracce nel libro di Antonio Calabrò “Cuore di Cactus” e lui palermitano vicepresidente di Assolombarda scrive di impresa riformista, cosi come con la Fondazione Transita di Pasquale Carrano mi ritrovo a Matera a ragionare di umanesimo industriale. Esperienze di un terzo racconto maturo non solo di coscienza di luogo e di territorio, ma anche geoeconomico e mediterraneo che ritrovo ogni volta che il sindaco di Palermo criticando le classifiche del Sole 24 Ore mi dice che la sua città, non con Monaco o Milano va comparata, ma con Istanbul, Tunisi e perché no con Barcellona. Il terzo racconto è lì, nelle lunghe derive della storia, continuiamo a cercare per continuare a capire caro De Rita…

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