Editoriali e Interviste

SENZAFILTRO

La vera evoluzione: da immunitas a communitas

Intervista di Bruno Perini

“Negli ultimi decenni abbiamo fatto ingenti investimenti nella ricerca per trovare gli antidoti ai virus che colpivano i nostri computer, ma forse ci siamo dimenticati di fare investimenti per trovare gli antidoti ai virus che colpiscono gli esseri umani. Ed è paradossale che il primo a metterci in guardia sui virus che colpiscono gli umani, nel 2015, sia stato Bill Gates, fondatore di Microsoft, uno dei padri dell’era digitale”. È forse questo uno dei passaggi più eloquenti della conversazione con Aldo Bonomi, sociologo, visionario e studioso dei mutamenti del lavoro nell’ambito delle grandi trasformazioni del capitalismo. Con lui abbiamo voluto parlare di mutamenti prima e dopo il cataclisma del COVID-19, dal fordismo a quella che, con una definizione altrettanto suggestiva, Bonomi definisce la “comunità di cura”.

“Siamo tutti comunità di cura”, dice Bonomi pensando a ciò che sta accadendo sul pianeta a pochi mesi dall’invasione della pandemia. “È vero, sono tante le lacrime da coccodrillo per un welfare che non c’è più, ma stiamo prendendo coscienza che il flusso COVID-19 genera una lacerazione estrema: da una parte comprime e riduce i segni di socialità – immunitas –, dall’altra induce e porta a riscoprire senso e significato all’essere in comune – communitas”.

Ci arriviamo, a quello scenario. Credo che in quell’immagine ci sia tutto il senso del confine che separa il prima e il dopo COVID-19. Ora però voglio fare un passo indietro e tornare a epoche che sembrano ere geologiche, e che invece ci hanno portato fino alla pandemia con una velocità imprevedibile.

Hai ragione, epoche del secolo scorso e di frammenti di questo secolo che segnano forse la fine di un mondo. Un passo indietro lo faccio volentieri a partire da una considerazione che ci porta per mano fino a oggi: a mio parere noi siamo figli di tre derive storiche ed economiche. Siamo in primo luogo figli del fordismo, una creatura nata nel Novecento negli Stati Uniti nell’industria automobilistica di Henry Ford. L’immagine, se vuoi, o la forma egemone di quella deriva, era la catena di montaggio – per intenderci, la grande fabbrica. Quella lunga fase arriva fino agli anni Settanta, quando i processi di industrializzazione forzata si incrinano. Dal 1970 fino agli anni 2000 nasce la fabbrica diffusa, la fabbrica a cielo aperto sul territorio. E poi dall’inizio del nuovo secolo fino ai nostri giorni prende il sopravvento il capitale globale in rete. La rete di Amazon rende bene l’idea. È un passaggio cruciale: noi arriviamo da una catena del valore basata sul controllo di quello che entrava e usciva dalla fabbrica, a una ragnatela del valore, il capitalismo molecolare.

Eppure, nonostante tu stia parlando ormai del presente, se mi guardo intorno sembra che tutto sia cambiato. Tutto in pochi mesi.

È vero, eravamo a questo punto del ciclo quando improvvisamente nel sistema si è aperta una faglia profonda provocata dalla pandemia. Qualcosa di imprevedibile. Come ti dicevo, mentre noi continuiamo a cercare gli antivirus per i nostri computer, ci accorgiamo che siamo sprovvisti davanti a un virus che colpisce l’uomo. In realtà questa faglia tremenda introduce una divaricazione drammatica tra coloro che dicono che ci salverà la rete, che ci salverà lo smart working e che dunque la fine della prossimità sarà risolta dalla simultaneità, senza rendersi conto che questa faglia fa apparire con tutta la sua forza l’essenzialità dei corpi. E, come si sa, i corpi non volano. Se la smettiamo di ragionare soltanto sui flussi dell’economia vediamo drammaticamente riapparire l’essenzialità del corpo che si ammala, che può essere fragile, come lo è una società che credeva di aver superato il Novecento.

Mi pare di capire che tutto ciò abbia a che fare con il lavoro, che tornerà a essere centrale nella ricostruzione che dovremo avviare come in un dopoguerra.

Già, proprio così. Stiamo discutendo di due polarità: da un lato c’è chi mette al lavoro il proprio sapere nel capitalismo della rete, con i suoi algoritmi e la sua conoscenza, e dall’altro c’è qualcosa che avevamo dimenticato: la vita nuda che ha bisogno di mangiare, di abitare di curarsi. Tempo fa ti feci un esempio che oggi, alla luce di quello che è accaduto, vale ancora di più: chi lava i panni e i vestiti a coloro che lavorano in Amazon? Chi fa le pulizie di casa? Quei lavori, come altri lavori cosiddetti “di servizio”, che erano caduti in un cono d’ombra, ora ritornano in tutta la loro essenzialità. Come si risolve questa doppia polarità? Bisogna ragionare e capire come mettersi nel mezzo di questa polarità, come gestirla senza mai negarla. Non possiamo trascurare uno dei due poli. Da qui il mio sostegno alla necessità di rivisitare il concetto di sindacato, rendendolo in grado di negoziare la potenza della tecnica e di fare comunità.

È qui che nasce l’idea della comunità di cura, mi pare. E se non sbaglio dopo il COVID-19 assume una diversa fisionomia. È così?

Vedo che ancora una volta ci intendiamo. È proprio così. Ma vorrei porre subito una questione, perché quella communitas di cui parliamo non è la stessa a cui pensavamo nel 2019, prima del grande evento. È vero in primo luogo che non tutte le communitas sono buone; non lo sono soprattutto quando vogliono immunizzarsi, ad esempio, dallo straniero, o più in generale dall’immigrazione. La comunità che si sta delineando dopo il COVID-19 non è fatta soltanto di volontariato o di specialisti a cui delegare le nostre cure, ma è fatta di medici, infermieri, ricercatori, operatori sanitari. Comprende il welfare che sembrava caduto nell’oblio. È una comunità di cura larga formata da tutti noi, che non usciamo di casa non solo per non contaminarci, ma anche per non contaminare. Ma oltre a queste figure ce ne sono altre che vediamo entrare con la loro essenzialità: il farmacista, il medico di famiglia, il bottegaio più vicino, il commesso del supermercato, l’agricoltore, il camionista, il fattorino di Amazon, il rider. Ecco perché il sindacato torna ad avere un ruolo essenziale, ecco perché la scuola torna a essere cruciale. Ecco perché insisto sulla centralità del lavoro.

Ma non credi che la centralità del lavoro vada pensata dentro un nuovo modello di sviluppo? Non è questa l’occasione per un ripensamento dei vecchi paradigmi?

Certo che lo è, ma per costruire un nuovo modello di sviluppo è vitale tenere assieme i quattro volti del capitalismo della nostra epoca: il capitalismo della rete soft che consente lo smart working ma che non offre tutele alle partite Iva e al lavoro agile; il capitalismo delle reti hard come la logistica, il trasporto delle merci attraverso le frontiere assicurato dai lavoratori dell’ultimo miglio; il capitalismo manifatturiero dei negozi, delle medie imprese e di tutto quello che abbiamo definito capitalismo molecolare. E infine il capitale sociale, fatto da quel volontariato che ha riempito i vuoti di un welfare ormai inesistente.

Già, ma conciliare questi microcosmi non sarà facile. Dentro quelle frontiere che tu hai descritto ci sono conflitti sociali dirompenti.

Perché tu conosci modelli di sviluppo economico-sociali che non prefigurano conflitti? Io non ne conosco. L’unica cosa che ti posso dire, pensando a quanto è accaduto sul nostro pianeta con l’avvento dell’epidemia, è che non è la fine del mondo, ma la fine di un mondo, come diceva l’antropologo Ernesto de Martino scrivendo dell’apocalisse culturale che ci prende quando non ci riconosciamo più in ciò che ci era abituale. Qui stanno i conflitti che verranno per ricostruire un altro mondo possibile.

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