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I beni intangibili: patrimonio dell’impresa ma anche del territorio

di Albino Gusmeroli – Fondazione Transita

L’importanza crescente che vanno assumendo gli asset intangibili nel determinare la capacità di perseguire con successo le finalità organizzative di una vasta platea di attori economici, sociali e istituzionali, pone con altrettanta urgenza il tema di come riconoscere, riprodurre, misurare, valutare e valorizzare, beni di una natura sfuggente che, ad esempio, non possono essere contemplati in un foglio di bilancio, a meno che non siano traducibili in diritti legali come brevetti, patent o marchi. Anzi, nella logica del bilancio, ciò che è intangibile rientra paradossalmente nella colonna dei costi, più che in quella degli investimenti, raramente tali beni possono essere quantificati in modo tale da rientrare nello stato patrimoniale di un’impresa, profit o no profit. In definitiva non esiste un sistema di incentivi che spingano le imprese a rendere visibili gli intangibili. E questo sarebbe anche uno dei motivi per i quali le graduatorie internazionali pongono l’Italia costantemente in fondo alle classifiche in questa materia. D’altro canto ci sono imprese in cui i valori intangibili sono la fonte principale di alimentazione della capitalizzazione di borsa. Si pensi, ad esempio, alla vicenda Amazon, che ha chiuso i bilanci contabili in rosso per diversi lustri pur vedendo aumentare in modo esponenziale la sua capitalizzazione.

Questa situazione pone gli asset intangibili in una specie di limbo, tanto che le stesse organizzazioni, a partire dalle imprese manifatturiere, tendono a rimuoverli, addirittura a non esserne consapevoli, talvolta a nasconderli all’interesse di eventuali investitori o nel rapporto con il sistema del credito, benché di fatto rappresentino asset distintivi difficilmente imitabili dai concorrenti. Eppure è ormai ben noto a tutti gli operatori che la conoscenza, alla base di qualsiasi forma di intangible, rappresenta la leva cruciale per la creazione di valore economico e sociale. E non si parla esclusivamente di conoscenza intesa come capitale umano, ma anche di capitale relazionale, di reputazione, di cultura organizzativa, di capacità manageriali, di intelligenza emotiva, di creatività al lavoro, giusto per restare all’interno delle mura aziendali.

Ma poiché gli intangibili funzionano quando agiscono in un sistema più o meno organizzato (il famoso ecosistema) è importante che i confini organizzativi (le mura) siano porosi, in costante rapporto di osmosi con l’ambiente esterno. Per questo le organizzazioni sono sempre più interessate a contribuire alla creazione e alla manutenzione di adeguate condizioni ecosistemiche promuovendo azioni di impatto sociale, di impatto ambientale, di impatto istituzionale sulle agenzie formative e di ricerca, sulle politiche di riassetto urbano, etc. Non ha caso, per inciso, è su questo terreno che le associazioni di rappresentanza tentano faticosamente di ritagliarsi un ruolo nel tentativo di rinnovare i servizi ma anche, e soprattutto, di concorrere (lobbying) a generare una cornice istituzionale in grado di accompagnare la transizione competitiva dei soggetti rappresentati. Su questo stesso terreno anche il sistema del credito appare oggi sempre più interessato ad individuare modalità di valorizzazione degli intangibili delle imprese clienti, ma anche delle start up tecnologiche totalmente intangibles.

In tutti i casi ciò che conta, come fa notare qualche operatore del settore, è la capacità delle imprese di “sapersi raccontare” (altra competenza intangibile), di saper raccontare una strategia di posizionamento, addirittura di condividere tale strategia in un rapporto di crescente trasparenza, tradizionalmente inusuale nella relazione impresa-banca. Questo processo ne innesca altri, quali, ad esempio, la necessità di passare dalla “personalizzazione delle informazioni” all’”oggettivizzazione delle informazioni”, nel senso del trasferimento del patrimonio delle conoscenze organizzative dalle persone all’impresa attraverso l’adozione di procedure che presuppongono una diversa gestione del potere legato alle informazioni e alle conoscenze. Nella prospettiva degli intangibles il fatto che il valore dell’organizzazione sia determinato principalmente dalla personalità dell’imprenditore, per altro tipico delle imprese famigliari o delle organizzazioni che ricalcano quel modello, diventa perciò un problema non da poco.

Ragionare di intangibles è importante anche in rapporto alle filiere, specie per quelle che risalgono dal rapporto diretto con i consumatori, come nel caso dell’agroalimentare dove produttori agricoli, trasformatori industriali, GDO, comprendono sempre più come il valore distintivo incorporato nel prodotto ha molto a che fare con la tenuta economica della filiera (non solo della propria impresa dunque), con l’impatto ambientale delle attività produttive, con le condizioni di lavoro al campo, in fabbrica e nella distribuzione. La reputazione del brand si gioca sulla capacità della filiera di generare equità nella distribuzione dei profitti, qualità dei beni pubblici come l’ambiente e la salute, condizioni di lavoro dignitose, che diventano intangibili fondamentali per competere nel mondo, laddove si ritenga che il made in Italy non sia solo un’etichetta ma la promozione di un certo modo di vivere, di lavorare e di consumare.

Il tema della misura dell’intangibile non è perciò solo un tema di impresa (o di sistema Paese), ma è anche un tema di territorio, di città, di aree geografiche. In un quadro di supply chains globali, lungo le quali circolano saperi, informazioni, persone e merci, i fattori attrattivi che permettono ai territori di entrare a fare parte dei grandi circuiti internazionali rimandano sì a fattori tangibili quali infrastrutture per la mobilità, centri direzionali, patrimoni architettonici, etc. ma anche a numerosi fattori intangibili qualitativi legati alla qualità delle risorse umane, al livello degli scambi culturali, ai valori civili, alla sostenibilità ambientale, all’efficienza della PA, rinvenibili soprattutto nelle grandi aree metropolitane. Da qui la profonda ridefinizione delle agende legate alle politiche urbane e regionali e l’emergere di nuova popolazione di attori, nuove autonomie funzionali (pubbliche e private), cui spetta il delicato compito di individuare forme di governance multistakeholders capaci di coniugare interessi privati ed interessi pubblici di aree territoriali macroregionali e piattaforme territoriali multilocalizzate.

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